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Svantaggi delle batterie allo stato solido: cosa innesca la degradazione?

Svantaggi delle batterie allo stato solido: cosa innesca la degradazione?
Analisi degli svantaggi delle batterie allo stato solido. Via depositphotos

Gli svantaggi delle batterie allo stato solido

Da quando sono apparse le prime batterie con elettroliti solidi, un concetto è stato chiaro a tutti: incarnano una delle più promettenti tecnologie d’accumulo per i veicoli elettrici grazie alla loro elevata capacità e maggiore sicurezza. Ma perché diventino un trend maturo, diverse sfide tecniche devono essere risolte. Oggi infatti le batterie allo stato solido presentano ancora degli svantaggi non trascurabili: hanno una durata di vita limitata e la loro capacità diminuisce a ogni ciclo di carica.

Per risolvere questi “contro” è necessario capire quali reazioni alimentano il processo di degradazione delle prestazioni. Attualmente la scienza ha individuato diversi fattori da tenere d’occhio. Nel dettaglio:

La stabilità dell’interfaccia: una delle principali sfide nelle batterie allo stato solido è quella di ottenere interfacce stabili tra l’elettrolita solido e gli elettrodi. In questi dispositivi infatti, la natura rigida dell’elettrolita può causare un contatto scadente, creando un’elevata resistenza interfacciale. Il problema risulta ulteriormente esacerbato durante il ciclo di carica/scarica, dal momento che i cambiamenti di volume attraverso gli elettrodi possono degradare ulteriormente l’interfaccia.

Difficoltà nella selezione dei materiali: individuare materiali ad elevata conduttività ionica e stabili per gli elettroliti solidi costituisce ancora una sfida importante. I più promettenti risultano attualmente troppo costosi o difficili da sintetizzare in grandi quantità. Senza contare che gli elettroliti a base ceramica soffrono di una fragilità intrinseca che mette a rischio gestione e durata.

Formazione dendritica: durante i cicli di ricarica, l’interfase che si forma tra elettrolita ed elettrodi potrebbe favorire la produzione di dendriti sulla superficie del catodo. Si tratta di minuscole formazioni aghiformi che possono penetrare nell’elettrolita solido e cortocircuitare la cella.

La Gestione termica: La capacità dell’elettrolita solido di dissipare il calore è meno efficiente rispetto agli elettroliti liquidi. Quindi queste batterie devono essere progettate per gestire efficacemente l’energia termica durante rapidi cicli di carica-scarica.

Limitata comprensione del comportamento degli elettroliti solidi: le conoscenze in materia sono ancora lacunose e mancano modelli accurati che prevedano il comportamento degli ioni in questi dispositivi. E ancora non si conoscono i fattori in grado di innescare la decomposizione dell’elettrolita e quali specie chimiche derivino da esso. 

La spettroscopia fotoelettronica mostra come si degradano le batterie allo stato solido

A portare un po’ di luce sulla questione è oggi un gruppo di scienziati in Germania. Come riportato sulla rivista ACS Energy Letters, alcuni ricercatori dell’HZB e del Justus-Liebig-Universität hanno impiegato la spettroscopia fotoelettronica a raggi X per analizzare campioni di elettrolita solido. Si tratta di una tecnica non distruttiva che può essere utilizzata per misurare la chimica superficiale di un materiale, conoscendone elementi e legami.

In questo caso l’approccio permette di analizzare le reazioni elettrochimiche all’interfaccia tra elettrolita solido ed elettrodo con elevata risoluzione temporale. Per lo studio il Dott. Elmar Kataev e Prof. Marcus Bär hanno analizzato campioni di Li6PS5Cl, un materiale ad elevata conduttività ionica, considerato il miglior candidato come elettrolita per queste ricaricabili. Uno strato estremamente sottile di nichel (6 nanometri) è servito ai ricercatori come elettrodo di lavoro. Un film di litio, invece, è stato premuto sull’altro lato del pellet in Li6PS5Cl perché agisse come controelettrodo.

Il team ha quindi bombardato il campione con i raggi X: gli atomi eccitati dai raggi e i prodotti di reazione possono essere identificati dai fotoelettroni emessi in funzione della tensione e del tempo applicati alla cella. L’approccio ha permesso così di studiare le reazioni elettrochimiche alle interfacce. E i risultati hanno mostrato che le reazioni di decomposizione erano solo parzialmente reversibili.

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