È facilmente modellabile, si degrada in natura e quando si rompe si aggiusta. La plastica che si autoripara rivoluzionerà il settore?
Un esperimento dell’Università di Tokyo mostra dei vitrimeri formare una plastica che si autoripara
(Rinnovabili.it) – Può esistere una plastica che si autoripara e si scompone facilmente anche in natura? La risposta è affermativa, almeno secondo uno studio dell’Università di Tokyo. I ricercatori dell’ateneo giapponese hanno sviluppato un nuovo polimero resistente a temperatura ambiente, ma facilmente scomponibile nei suoi monomeri. Nell’acqua di mare si trasforma in cibo per la vita marina e, addirittura, può ripararsi da solo.
Si tratta di un vitrimero di resina epossidica, facile da rimodellare se scaldato. Di norma i vitrimeri sono fragili, ma il team ha migliorato la ricetta aggiungendo una molecola chiamata polirotaxano.
Il risultato finale è una nuova plastica chiamata VPR, che vanta una serie di vantaggi rispetto a materiali simili. Al VPR è bastato un riscaldamento a 150 °C per 60 secondi per riparare un taglio inferto con un bisturi. Un tempo 15 volte più breve dei suoi “concorrenti”. Sempre grazie al riscaldamento, può anche riguadagnare la forma originaria dopo essere stato schiacciato. Il tutto, anche qui dieci volte più in fretta del tipico vitrimero.
La facilità di modellazione e di autoriparazione vanno di pari passo con una alta riciclabilità. Ancora una volta, basta l’apporto di calore e di un solvente per spezzare i suoi legami molecolari. Se disperso nell’ambiente, il VPR rappresenta un problema minore rispetto ad altre materie plastiche, spiegano gli scienziati. Per dimostrarlo hanno immerso il polimero nell’acqua di mare per 30 giorni. In quel lasso di tempo, si è biodegradato del 25% e ha rilasciato molecole che sono essenzialmente cibo per la vita marina.
Il team afferma che il materiale potrebbe trovare impiego in una varietà di applicazioni per le quali sono già utilizzate altre plastiche. Si pensa a materiali infrastrutturali per strade e ponti, composti da resine epossidiche mescolate con composti come cemento e carbonio. Sarebbe più facile, dicono gli esperti, “curare” queste infrastrutture utilizzando semplicemente il calore. Un altro impiego possibile è quello dell’industria automobilistica.