Anticipando di oltre 10 anni quanto successivamente definito in sede europea, Fiat ha intuito il valore posseduto da un’auto giunta a fine vita e creato una filiera che ha reso l’Italia un caso esemplare
Qualsiasi bene di consumo giunto alla fine del suo ciclo di vita diventa un rifiuto che, se gestito male, può rappresentare una seria minaccia per l’ambiente; se “accompagnato” economicamente, invece, può trasformarsi in risorsa ed essere smaltito come si deve o recuperato per cicli di vita successivi. I veicoli sono un caso unico nell’ambito del riciclaggio dei beni di consumo giunti a fine vita per il loro contenuto di valore: anche allo stato di rifiuto, infatti, un veicolo presenta due importanti fonti di reddito, rappresentate da una parte dai pezzi di ricambio usati che trovano una seconda vita, dall’altra dal riciclaggio del materiale metallico, un bene di valore che, se recuperato, consente notevolissimi risparmi energetici.
In Italia è più di vent’anni che esiste una filiera industriale dedicata interamente al trattamento e alla valorizzazione del veicolo giunto a fine vita. Erano i primissimi anni 90 quando alcune aziende, intravedendo le potenzialità sia economiche che ambientali legate al comparto, hanno iniziato a trattare l’auto a fine vita e i materiali da essa recuperati. Tra i pionieri di questa brillante iniziativa tutta Made in Italy c’era anche la Fiat che, sulla scia di una coscienza ecologica in piena affermazione, ha scommesso su un comparto che nel giro di pochi lustri è diventato una realtà consolidata a livello mondiale. A raccontarci come sono andate le cose e a quali sfide è chiamato oggi il settore è Salvatore Di Carlo, Direttore di Fiat Group Automobiles S.p.A..
«Siamo stati tra i primi ad aver avuto l’idea di sfruttare le auto giunte a fine vita non soltanto per il loro contenuto metallico, ma anche per tutto ciò che riguardava plastica, gomma e vetro, fino ad allora materiali che venivano scartati e spediti in discarica», ha spiegato Di Carlo. «Nella filiera cui abbiamo dato vita c’erano da una parte i demolitori, ai quali abbiamo chiesto di occuparsi non più solo dei pezzi di metallo, ma anche di vetro, alcune plastiche e alcune gomme, dall’altra noi, che cercavamo di assicurare sbocchi di mercato per questi materiali fino ad allora non trattati. L’ottica era quella di arrivare a un valore economico di equilibrio: era chiaro che non ci sarebbero stati grossi guadagni, ma strutturare bene la catena e assicurare un mercato di sbocco per questi materiali, ci faceva sperare in un equilibrio dei costi consentendo un effettivo riciclaggio di plastica, gomma e vetro, altrimenti destinati alla discarica».
Il team della Fiat iniziò, dunque, a immaginare di poter recuperare non soltanto il 75% (in peso) di materiale metallico, ma addirittura fino all’80-84% dei materiali recuperabili in un’autovettura giunta a fine vita. Sono passati più di venti anni e oggi il settore in Italia è arrivato ad occupare circa 30-40.000 persone.
«Se escludiamo noi e i rivenditori, entrambi operanti nel settore dell’auto nuova, ma comunque parte integrante della filiera, tutti coloro che incentrano le loro attività sul rottame, tra demolitori, frantumatori e rottamatori, sono parecchie decine di migliaia».
Più difficile fare stime, invece, sul giro d’affari che il comparto riesce a smuovere, legato essenzialmente alla rivendita del materiale metallico e dei pezzi di ricambio.
«Ma ci si può arrivare – ha commentato Di Carlo – sapendo che sul territorio italiano ci sono 1.500 aziende di demolizione, che vivono recuperando e demolendo le vetture e, al contempo, rivendendo materiale e pezzi di ricambio, oltre 600 aziende, che fanno trading del materiale metallico, e 30 grandi shredder, che frantumano questo materiale e forniscono acciaio alle nostre acciaierie».
A meno di due anni dal momento in cui dovranno essere ridefiniti gli obblighi di legge previsti dalla Direttiva europea sugli End of Life Vehicles, viene da chiedersi quali siano le sfide che aspettano il settore.
«La prima Direttiva europea, che è diventata legge in tutti gli Stati membri imponendo target di riciclo a cura del produttore e di tutti i gestori della catena del riciclo, è entrata in vigore nel 2006 e avrà valore fino al 2015, anno in cui la Direttiva stessa ha già previsto un aumento di questo valore. Noi, insieme a tutti i partner dell’intera filiera, stiamo già lavorando per poter conseguire il risultato imposto: riciclare l’85% in peso di un’auto e recuperarne almeno il 95%».
A dispetto di tante altre falle di sistema con cui il nostro Paese deve fare i conti, su questo comparto l’Italia sembra proprio un esempio da seguire, anche rispetto alle altre realtà europee. Alcuni Stati membri, infatti, come la Francia e l’Irlanda per esempio, non hanno raggiunto i target imposti dalla Direttiva e sono oggi sotto osservazione con il rischio di veder scattare, da parte della Commissione, la procedura di infrazione e il conseguente obbligo al pagamento di una penale. Anticipando di oltre 10 anni quanto successivamente definito in sede europea, Fiat ha invece creato le condizioni per cui oggi si può parlare dell’Italia come un caso esemplare. Quella del reimpiego dei materiali è una scoperta piuttosto recente rispetto alla nascita dell’automobile e oggi la sfida si è spostata sul mercato: riuscire a trovare sbocchi per gli innovativi materiali che i progettisti stanno impiegando sulle auto nuove, con la consapevolezza che la progettazione è a tutti gli effetti l’aspetto più cruciale di tutta la filiera del riciclo dell’auto. L’auto viene infatti progettata già nell’ottica che dovrà essere riciclata nell’arco di 15-20 anni.
«L’obiettivo che la Direttiva impone da qui al 2015 è assolutamente sfidante – ha concluso Di Carlo – e noi siamo convinti di raggiungerlo. Ma la sfida più grande è quella di riuscire ad andare oltre perché trovare nuovi mercati significherebbe innescare processi virtuosi e ottenere vantaggi economici».