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Gli ostacoli dell’economia circolare italiana in 5 storie

Le storie di cinque filiere virtuose dell’economia circolare italiana bloccate da ritardi normativi e burocrazia

economia circolare italiana

 

Cosa frena l’economia circolare italiana?

Cosa succede quando lo sviluppo di un nuovo modello circolare di economia trova la tecnologia giusta per passare da buona pratica a realtà consolidata, ma non la legislazione di supporto? La risposta arriva da cinque emblematiche storie italiane di circular economy attualmente imprigionate in un paradosso di norme e burocrazia. Cinque filiere virtuose le cui potenzialità sono sfruttate quasi al minimo, e che vanno dal riciclo dei PFU ai sacchetti compostabili.

 

A raccontare gli attuali ostacoli dell’economia circolare italiana è la giornata di apertura del IV Ecoforum organizzato a Roma da Legambiente, La Nuova Ecologia e Kyoto Club con la partecipazione di CONOU. “Seppure da Nord a Sud sono ormai numerose le esperienze di successo praticate da Comuni, società pubbliche e imprese private che fanno del nostro paese la culla della nascente economia circolare europea – ha dichiarato il direttore generale di Legambiente Stefano Ciafani – questa prospettiva continua a trovare ostacoli e barriere dovuti a legislazione inadeguata e contraddittoria che vanno rimossi”.

 

Circular economy: 5 paradossi tutti italiani

Uno degli esempi più eclatanti di “sviluppo circolare” mancato è rappresentato dal settore dei sacchetti compostabili. L’Italia è stata la prima in Europa a mettere al bando le tradizionali buste di plastica: il divieto è entrato in vigore nel 2012, il regime sanzionatorio nel 2014. Eppure non solo siamo stati ripresi dell’Unione Europea per il mancato recepimento della direttiva del 2015 sulla riduzione dell’uso dei sacchetti in plastica (ispirata alla stessa legislazione italiana), ma continuiamo a scontrarci con una filiera illegale parallela. Metà dei sacchetti in circolazione a livello nazionale sono ancora fuori norma (pari a 40mila tonnellate di plastica) con una perdita per la filiera legale di circa 160 milioni di euro, a cui si  devono aggiungere 30 milioni di euro di evasione fiscale e 50 milioni di euro necessari per lo smaltimento delle buste fuori legge.

 

Fa aggrottare il sopracciglio anche il caso del riciclo dei PFU. Il polverino di gomma che si ottiene dal trattamento degli pneumatici è oramai usato con successo da ben 40 anni negli asfalti modificati, grazie ad ottime prestazioni tecniche ed ambientali (riduzione del rumore). L’utilizzo su larga scala viene frenato però, dalla diffidenza degli operatori del settore e dal loro mancato inserimento nei capitolati a causa dell’assenza di criteri tecnici adeguati a distinguere un rifiuto da una materia prima secondaria non più soggetta alla normativa sui rifiuti.

 

Sulla stessa riga, il processo di trattamento dei pannolini e dei prodotti assorbenti per la persona. In Italia, l’azienda privata Fater di Pescara ha realizzato a Spresiano (Tv), nel sito dell’azienda pubblica Contarina, un impianto di sanificazione e separazione delle matrici del rifiuto che permette il recupero di materiali di elevata. Il sito, tuttavia, è fermo perché l’autorizzazione della Regione Veneto, in mancanza di una normativa nazionale, classifica le frazioni di plastica e di cellulosa prodotte dall’impianto come rifiuto e questo crea problemi alle aziende interessate al loro riciclo.

 

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Ci sono poi gli aggregati di materiali provenienti dai rifiuti da costruzione e demolizione (C&D): i rifiuti edilizi rappresentano il 25-30% del volume totale europeo e potrebbero essere recuperati e rigenerati con enormi vantaggi ambientali. Sono stati utilizzati con successo anche in cantieri autostradali (come ad esempio per il Passante di Mestre), ma le barriere all’utilizzo degli aggregati di recupero sono ancora molte, a partire dai capitolati che ne vietano o, di fatto ne limitano l’utilizzo, per la scarsa conoscenza da parte dei Direttori tecnici.

 

Infine, meritano una nota anche i rifiuti di fonderia al posto di materiali da cava: le sabbie derivate dagli scarti di fonderia potrebbero avere un riutilizzo virtuoso come materiali secondari con risultati positivi sui costi di produzione e sull’ambiente, ma ogni vantaggio è oggi bloccato da una burocrazia farraginosa, incerta e differente da Regione a Regione.