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Lo stato della della plastic tax in Europa e non solo

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L’UE è paladina della plastic tax, anche se ogni paese l’ha scritta in modo diverso

(Rinnovabili.it) – Quella della tassazione della plastica è ormai una misura considerata non più rimandabile. Lo dice perfino l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Tra gli interventi proposti nei suoi scenari al 2060, la plastic tax può contribuire a ridurre l’inquinamento, migliorare la circolarità e diminuire le emissioni di gas serra. Come riassume Greenpeace in un recente rapporto, “la Plastic Tax, da inserire in un quadro coerente e articolato di interventi, è considerata l’elemento chiave nei due scenari proposti dall’OCSE. Con una tassa che cresce fino a 750 dollari per tonnellata al 2060 il riciclo aumenterebbe fino al 40% e i rifiuti gestiti in modo scorretto si ridurrebbero del 60% rispetto allo scenario di riferimento”. Se la stessa misura fosse anticipata al 2030, per salire a 1500 dollari al 2060 “si otterrebbero risultati ancora più significativi, con un aumento del riciclo del 60%”.

Tuttavia, non siamo affatto vicini a questi target. Eppure molti paesi hanno una qualche tassa sulla plastica o stanno pianificando di introdurne una. 

Obiettivi della plastic tax

L’idea alla base della tassa sulla plastica è quella di rendere più costoso per le industrie e i consumatori continuare a utilizzare la plastica. Quanto più aumentano i costi, tanto maggiore sarà il numero di aziende disposte a passare a materiali di imballaggio ecologici. La maggiore domanda, si pensa, porterà a una maggiore disponibilità di alternative e a prezzi più bassi.

Inoltre, la tassazione degli imballaggi in plastica potrebbe rendere la plastica riciclata più competitiva rispetto alla plastica vergine. Questo è l’obiettivo specifico di tasse mirate sulla plastica monouso.

A volte le entrate generate dalla plastic tax vanno a finanziare il settore del riciclo e degli imballaggi ecologici. Questi fondi vengono utilizzati per creare condizioni di parità per i produttori di alternative sostenibili che al momento non riescono a competere con la plastica vergine.

Paese che vai, usanza che trovi

Molti dei paesi che hanno scelto di imporre una tassa sulla plastica si trovano in Europa. I paesi in via di sviluppo, invece, hanno mostrato una maggiore disponibilità ad imporre divieti totali. In Africa, ad esempio, l’assenza di una forte lobby della plastica ha reso più facile vietare completamente alcuni prodotti di plastica. È il caso di Kenya e Tanzania. La Cina è un altro paese considerato “in via di sviluppo” che ha messo fuori legge alcuni tipi di imballaggi in plastica. L’India ci stava provando, ma ha sospeso alcune leggi a causa della pandemia. Negli Stati Uniti non esistono ancora divieti o tasse a livello nazionale sui sacchetti di plastica, sebbene alcuni stati abbiano implementato leggi del genere. I paesi, gli stati e i governi locali che scelgono di imporre tasse sulla plastica tendono a farlo su specifici polimeri. Alcuni prendono di mira tutti i tipi di imballaggi in plastica, mentre altri solo quelli monouso. Anche il modello di progettazione fiscale differisce da un paese all’altro. Alcuni mettono l’imposta sul produttore, altri sui consumatori.

Il mosaico europeo

Gli stessi stati – e quindi i contribuenti – in UE pagano una tassa sulla plastica non riciclata. Dal 1° gennaio 2021, l’Unione ha introdotto infatti un’imposta basata sulla quantità di imballaggi non riciclati (in plastica) prodotti da ciascun paese membro. La ratio è ridurre la proliferazione dei rifiuti mal gestiti e allo stesso tempo finanziare il bilancio dell’UE 2021-2027.


Il contributo è 0,80 euro al kg. Alcuni Stati membri stanno pagando l’imposta attingendo ai bilanci nazionali, altri hanno introdotto (o stanno cercando di introdurre) nuovi balzelli sui prodotti in plastica. L’Italia, che non ha ancora introdotto la plastic tax – la sta rinviando da anni – paga 800 milioni di euro l’anno. La collettività, in sostanza, sta pagando un contributo all’UE che non riduce i rifiuti generati. 

A parte questo contributo valido per tutti i paesi, molti hanno poi varato delle misure nazionali. In Danimarca, l’imposta viene applicata ai rivenditori che distribuiscono sacchetti di plastica indipendentemente dalle dimensioni e dal tipo. Il costo è di gran lunga il più alto d’Europa: 54 centesimi a sacchetto. Tuttavia, viene scaricato sui consumatori. Funziona in maniera simile anche in Irlanda (22 centesimi a busta) e in Grecia (5 centesimi). 

Alcuni paesi preferiscono riscuotere la tassa dal produttore o dal rivenditore: è il caso di Lettonia, Romania, Portogallo e Spagna. Quest’ultima prende di mira qualsiasi tipo di imballaggio che contenga plastica non riutilizzabile. La Lettonia, in modo simile, tassa tutti gli imballaggi in plastica e le stoviglie. La Polonia inizierà a tassare dal 2024 la plastica non riciclata, ma incorpora il balzello nel prezzo dei prodotti, scaricando quindi l’onere sui consumatori. Nel Regno Unito, la plastic tax si applica su tutto il packaging in plastica che abbia meno del 30% di contenuto riciclato.

La plastic tax italiana doveva essere un’imposta sul consumo dei manufatti in plastica monouso utilizzati per l’imballaggio delle merci e dei prodotti alimentari (i cosiddetti MACSI). Introdotta con la legge di bilancio 2020, come anticipato non è mai entrata in vigore.

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