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Con il riciclaggio enzimatico è possibile scomporre il PET più difficile

Con il riciclaggio enzimatico potrebbe essere più possibile scomporre in maniera economica le plastiche più difficili da degradare, come il PET utilizzato in tessuti e bottiglie

riciclaggio enzimatico
Foto di Dean Moriarty da Pixabay

(Rinnovabili.it) – Sempre più studi confermano che il perfezionamento del riciclaggio enzimatico potrebbe condurre alla scomposizione delle plastiche più difficili. La pratica è infatti utile a degradare il polietilene tereftalato (PET) utilizzato in molti tessuti e nelle comuni bottiglie di plastica. Brevettato nel 1940, il PET è un materiale piuttosto versatile e di lunga durata, caratteristiche che ne hanno fatto la plastica più comune al mondo ma anche la più difficile di cui liberarsi: le tecniche di riciclaggio più avanzate si avvicinano allo scopo, ma sono particolarmente costose.

“La realtà è che la maggior parte dei prodotti in PET, in particolare l’abbigliamento PET e moquette, non vengono riciclati oggi utilizzando tecnologie di riciclaggio convenzionali”, ha spiegato Gregg Beckham, ricercatore senior presso il National Renewable Energy Laboratory (NREL) e CEO del U.S. Department of Energy BOTTLE Consortium. “La comunità di ricerca sta sviluppando alternative promettenti, tra cui enzimi progettati per depolimerizzare PET, ma anche queste opzioni hanno teso a dipendere da fasi di pre-elaborazione ad alta intensità di energia e costose per essere efficaci”.

Per la prima volta riciclare il PET potrebbe essere più economico che produrlo ex novo

Gran parte del PET è dunque difficile da riciclare e finisce nel migliore dei casi in discarica, nel peggiore viene disperso nell’ambiente ma, ha spiegato Beckham, le cose stanno cambiando grazie all’utilizzo dei metodi di apprendimento automatico e della biologia sintetica, che hanno aperto alla letteratura scientifica il mondo degli enzimi decostruenti. In un articolo su Nature Communications, il ricercatore del NREL ha riportato insieme al suo team e ai laboratori delle Portsmouth e Montana State University gli esiti del proprio studio che applica questi nuovi metodi all’indagine sulle varianti enzimatiche. Il risultato è particolarmente promettente, perché gli enzimi sembrano in grado di scomporre anche il PET più duro senza ricorrere a pratiche costose e, per la prima volta, potrebbero rendere il riciclaggio del PET più economico della produzione ex novo a partire dalla raffinazione del petrolio.

Liberare le discariche e i mari dal PET con il riciclaggio enzimatico

I primi studi scientifici sul riciclaggio enzimatico del PET risalgono al 2005 ma la tecnica ha fatto un balzo in avanti nel 2016, quando un gruppo di scienziati giapponesi ha scoperto, in un impianto di riciclaggio, un batterio che stava autonomamente secernendo enzimi che degradavano le bottiglie di plastica.

Il piccolo aiutante del riciclaggio è stato battezzato “Ideonella sakaiensis” ed è in grado di spezzare i legami chimici fortissimi che caratterizzano il PET e riportare le bottiglie alle loro componenti originarie: acido tereftalico e glicole etilenico.

A partire da questa scoperta la ricerca sul riciclaggio enzimatico ha subito un’accelerazione notevole perché gli scienziati sapevano cosa cercare: bisognava migliorare gli enzimi da utilizzare perché fossero adatti alle tecnologie industriali necessarie alla scomposizione di milioni di tonnellate di PET.

Trovare un modo per rendere scalabile la tecnologia del riciclaggio enzimatico era la strada per risolvere una delle maggiori problematiche ambientali connesse all’inquinamento da plastica.

“La letteratura scientifica si è illuminata con nuovi documenti provenienti da tutto il mondo, mentre i ricercatori hanno capito il potenziale dell’utilizzo di enzimi per abbattere le materie plastiche”, ha detto John McGeehan, uno scienziato che ha guidato il contributo del team presso l’Università di Portsmouth (UoP) nel Regno Unito. “Esperti provenienti da settori diversi come quello farmaceutico e dei biocarburanti sono stati in grado di riutilizzare decenni di esperienza nella ricerca ingegneristica enzimi.”

La letteratura scientifica sul riciclaggio enzimatico

Tra il 2018 e il 2021 Beckham, McGeehan e altri scienziati hanno arricchito la letteratura scientifica sul tema con diversi studi di caratterizzazione di enzimi che sono giunti a migliorarne l’efficienza fino a sei volte. Nel 2022 un articolo si è concentrato nella valutazione degli impatti globali di un sistema di riciclaggio enzimatico sul PET.

I risultati raggiunti sono misurabili e traducibili in effetti concreti: con l’utilizzo di un bioreattore bastano 48 ore per scomporre, mediante il riciclaggio enzimatico, il 98% della plastica PET per produrre nuove bottiglie o in generale plastiche più facilmente riciclabili.

“È stata un’esperienza incredibile essere in un campo che si stava espandendo così rapidamente”, ha raccontato McGeehan. “Stiamo raggiungendo un punto in cui la scienza collaborativa ha un enorme potenziale per accelerare lo sviluppo e l’implementazione di soluzioni basate su enzimi su larga scala”.

C’era tuttavia un problema per scalare la tecnologia del riciclaggio enzimatico alle dimensioni di un processo industriale, perché gli enzimi funzionavano su una piccola percentuali di prodotti, quelli composti in PET detto “amorfo”. Diverse tipologie di PET “cristalline”, che sono le più durevoli e le più diffuse, non potevano essere invece degradate senza prima un processo di ammorbidimento generato da una gran quantità di energia e calore. Il PET cristallino è però la quota maggiore del problema della diffusione delle plastiche, perché è quello che compone le fibre di poliestere e molte parti delle bottiglie in plastica.

L’irruzione della bioinformatica negli studi

A questo punto è arrivata la bioinformatica che, mediante apprendimento automatico, aveva già fornito un’ampia catalogazione delle sequenze enzimatiche in grado di scomporre il PET cristallino.

“Gli approcci tradizionali per mappare i nuovi enzimi che mangiano plastica dai database possono essere inefficaci, dal momento che gli enzimi che sono molto simili nella loro composizione chimica non possono necessariamente mantenere l’attività di decostruzione plastica”, ha detto lo scienziato computazionale NREL Japheth Gado. Per superare questo gap Gado ha elaborato un modello statistico che ha garantito la previsione delle regole biologiche in base alle quali gli enzimi scompongono la plastica e, con l’apprendimento automatico, è in grado di prevedere la tolleranza al calore degli enzimi utilizzati.

Il lavoro dei due modelli ha consentito, in meno di un’ora, la selezione di più di 250 milioni di proteine utili al riciclaggio enzimatico. Ulteriori test hanno sfoltito la lista a 36 enzimi in grado di scomporre il PET, di cui 24 non erano mai stati descritti in precedenza. Molti degli agenti identificati lavoravano meglio il PET cristallino rispetto a quello amorfo. Un passo avanti notevole.

“I metodi all’avanguardia dell’IA ci aiutano a trovare modelli nei dati enzimatici che forniranno una maggiore comprensione di ciò che rende un buon enzima che mangia plastica”, ha illustrato Gado. “Questo ci permetterà di migliorare gli enzimi con l’ingegneria proteica e di trovare altri enzimi in natura che sono simili in termini di prestazioni.”

Il riciclaggio enzimatico è più economico ed ecologico

Le fasi di preparazione di una plastica PET al riciclaggio sono quelle che incidono maggiormente sulla sostenibilità di un processo enzimatico.

“Ridurre al minimo queste fasi di pre-elaborazione è fondamentale per rendere il costo del riciclaggio enzimatico competitivo con la creazione di resina PET dal petrolio”, ha spiegato Beckham.

La ricerca del suo gruppo ha indagato proprio questi aspetti mediante l’osservazione di una serie di enzimi in grado di abbattere sia il PET amorfo sia quello cristallino. La loro efficacia è tale che non hanno bisogno delle operazioni di preprocessing utilizzate per ammorbidire la plastica: “Tagliando il preprocessing, la tecnologia potrebbe consentire su scala industriale riciclaggio PET che è in realtà più economico della produzione di PET vergine utilizzando il petrolio”, ha spiegato “Ancora meglio, può ridurre l’energia associata e le emissioni di gas serra”.

In una ricerca del 2021 gli scienziati erano già riusciti a quantificare i vantaggi economici e ambientali del riciclaggio enzimatico senza preprocessing, mostrando come un impianto industriale potrebbe abbattere la domanda energetica delle catene di approvvigionamento del 45% e le emissioni del 38% rispetto a un impianto che utilizzi le tecniche di pretrattamento del PET.

Anche i vantaggi economici sono notevoli: il riciclaggio enzimatico di una moquette in PET può generare acido tereftlalico per meno di un dollaro al chilo, mentre produrlo a partire dal petrolio costa fino a un dollaro e mezzo al chilo.

“La nostra piattaforma enzimatica crea un incentivo economico per ripulire i nostri oceani”, ha detto Erika Erickson, un ex ricercatore post-dottorato NREL che ha condotto gran parte del lavoro sperimentale dietro gli studi. “A tale prezzo, l’inquinamento da PET può essere riciclato in modo conveniente in nuovi prodotti in PET o trovare un nuovo scopo nelle pale delle turbine eoliche o nei paraurti in fibra di carbonio.”