L’uso di batteri che digeriscono la plastica potrebbe accelerare la riduzione dell’inquinamento
La ricerca di batteri che digeriscono la plastica impegna numerosi team di scienziati in tutto il mondo. La speranza è trovarne di “bravi” a svolgere questo compito per poi ingegnerizzarli per metter loro il turbo. Più di una volta abbiamo raccontato gli esiti positivi di studi che indagavano le proprietà dei batteri mangiaplastica.
Questa volta un team di ricercatori della Northwestern University ha scoperto che ci riesce anche un batterio comune, appartenente alla famiglia Comamonadacae. Il Comamonas testosteroni, questo il nome del piccolo esserino, distrugge gli oggetti in micro e nanoplastiche, utilizzandole poi come fonte di cibo. Lo si trova nei depositi di acque reflue. Probabilmente proprio frequentando questi ambienti ha sviluppato la sua capacità di fare a pezzi un materiale ostico come la plastica.
Come funziona il processo di degradazione della plastica
Il Comamonas testosteroni digerisce la plastica con un processo in tre fasi:
- Frammentazione iniziale: il batterio sminuzza la plastica in piccoli frammenti, noti come nanoplastiche.
- Secrezione enzimatica: Comamonas rilascia un enzima specializzato che scompone ulteriormente il materiale plastico.
- Utilizzo del carbonio: il batterio assimila e utilizza un anello di atomi di carbonio della plastica come fonte di energia e crescita.
Le implicazioni per l’ambiente
La plastica, è superfluo ormai dirlo, rappresenta una delle principali cause di inquinamento globale. Il polietilene tereftalato (PET), comunemente usato in bottiglie e imballaggi alimentari, costituisce fino al 50% delle microplastiche nei sistemi idrici.
Questo tipo di plastica è difficile da degradare naturalmente, ma il batterio scoperto dalla Northwestern è in grado di abbatterla fino ai monomeri di base. Questa scoperta potrebbe aprire la strada a soluzioni di ingegneria batterica per la pulizia delle acque e dei suoli contaminati da plastica. Il team che ha condotto lo studio sottolinea che identificare il meccanismo esatto e l’enzima chiave potrebbe portare allo sviluppo di tecnologie innovative per eliminare in modo più efficiente i rifiuti plastici.