Oltre al risparmio di materie prime, l'industria della frantumazione contribuisce alla riduzione dei rifiuti solidi destinati allo smaltimento; eppure ci sono criticità che potrebbero inficiare la qualità e la sicurezza dei prodotti trattati
(Rinnovabili.it) – Che cos’è e come funziona la frantumazione dei veicoli giunti a fine vita? Continua il nostro percorso di presentazione della filiera che in Italia si occupa della gestione degli End of Life Vehicle (ELV), una tipologia di rifiuto che se gestita con criterio, oltre a far bene all’ambiente, può diventare un fiorente motore economico. Questa volta abbiamo chiamato in causa il Presidente dell’Associazione Industriale Riciclatori Auto (AIRA), Giorgio Manunta, una realtà che punta alla produzione di rottame per la siderurgia nazionale. L’industria della frantumazione degli autoveicoli, infatti, gioca un ruolo fondamentale nella gestione efficiente dei veicoli a fine vita e contribuisce non solo al risparmio di materie prime, ma anche alla riduzione dei rifiuti solidi destinati allo smaltimento, operazioni fondamentali per adempiere a quanto richiesto dalla Direttiva europea sugli ELV.
“La frantumazione è un processo di macinazione cui viene sottoposto il veicolo giunto a fine vita”, ci spiega. “L’autoveicolo viene immesso in una grande macchina dotata di tramoggia, macinato, e ridotto in pezzi e frammenti di 10-20 o al massimo 30 cm, che successivamente verranno poi selezionati per dividere la parte ferrosa da quella non ferrosa”.
Manunta ci spiega, infatti, che lo scopo principale della frantumazione è il recupero del cosiddetto proler, un materiale ferroso molto permeabile ottimo per le acciaierie nazionali.
“Gli altri metalli non ferrosi – aggiunge – contengono prevalentemente alluminio e secondariamente metalli rossi, rame e ottone e sono ancora piuttosto sporchi di materiali inerti, che vanno selezionati in successivi processi. Dalla frantumazione si ottiene anche una parte non metallica, il cosiddetto fluff, un prodotto che ad oggi crea non pochi problemi alla categoria e che deve essere ridotto il più possibile”.
A quanto ammonta, chiediamo, la quota annuale di rottami ferrosi frantumati che confluisce all’industria siderurgica nazionale?
“Siamo oggi a un minimo storico – dice – ma la quantità di rottami ferrosi che arriva all’industria siderurgica è valutabile attualmente in circa 600-700mila tonnellate annue. Una quantità che non è fatta solo da proler, ma è il totale che deriva dal filone delle automobili perché nei grandi impianti industriali in cui si produce proler si ottengono anche varie tipologie di rottami, che difficilmente si riesce poi a separare. A causa di questi quantitativi minimi c’è innanzi tutto la crisi, che porta a un ricambio di veicoli molto rallentato, e il fenomeno dell’esportazione: su 1.400.000 veicoli annui disponibili per la radiazione, oltre 500.000 vengono esportati, spesso con pratiche non proprio lineari perché la rottamazione all’estero costa meno che in Italia”.
Il motivo di questo fenomeno che rende il nostro mercato scarsamente competitivo è dovuto essenzialmente ai costi. Manunta ci spiega, infatti, che, oltre a quelli legati all’energia e alla manodopera, ci sono anche quelli relativi allo smaltimento del fluff: nonostante stiano progressivamente diminuendo, si parla di 100 euro alla tonnellata, il doppio di quanto sostenuto dagli altri Paesi europei (nei Paesi dell’Est, dove scarso è lo scrupolo allo smaltimento, il costo è addirittura inferiore). Inoltre la tendenza al recupero all’estero, specie nei Paesi in via di sviluppo, è molto più accentuata quindi la spoliazione del veicolo è maggiore. Il fluff rappresenta, come sottolineato in altre occasioni, è la maggior criticità per la filiera e con le scadenze della Direttiva europea che incombono bisognerà pensare, aggiunge Manunta, alla termovalorizzazione del fluff, un ambito nel quale siamo molto indietro.
“Purtroppo attualmente in Italia la forma di smaltimento principale è il conferimento in discarica. Ci sono dei possibili utilizzi legati al suo uso ad esempio nei cementifici, ma si tratta solo di progetti ancora da realizzare. Se prodotto secondo le regole previste dal Decreto 209, che prevede che il demolitore, prima dello smaltimento, tratti l’automobile in maniera tale da rimuovere le parti pericolose, il fluff non è un rifiuto pericoloso. Il problema è che spesso le bonifiche non vengono fatte secondo quanto richiesto e previsto dalla legge e questo produce un prodotto che risulta pericoloso”.
Con un giro d’affari generato dai rottami ferrosi pari a circa 300 euro a tonnellata, per un totale di 600.000 tonnellate annue, chiediamo a Manunta quali siano, a suo avviso, gli aspetti critici da regolare e migliorare per ottimizzare il lavoro di tutta la filiera degli ELV in Italia.
“Esiste un tavolo di discussione per regolare il settore – spiega – ma in questo momento l’Associazione che presiedo diverge un po’ dalle idee degli altri soggetti della filiera: noi auspichiamo un collegamento stretto tra la demolizione e la frantumazione perché a nostro avviso il problema della qualità, e quindi della sicurezza del prodotto, è essenziale. Per questo dovrebbe esserci una stretta collaborazione tra la prima e la seconda fase del processo. Di fronte ad un fluff pericoloso è difficile stabilire se la colpa sia del frantumatore, che ha curato poco la selezione, o del demolitore, che ha eseguito una cattiva bonifica, ma da un punto di vista industriale, la liaison diretta tra frantumatore e demolitore accorcerebbe la filiera, evitando giri inutili. E’ questo il motivo per cui AIRA sostiene la necessità di adeguarsi al regolamento europeo 333, che ci istruisce su come rendere il rottame un vero e proprio prodotto e obbliga di fatto a una sintesi tra la frantumazione e la rottamazione dei veicoli giunti a fine vita, anche in virtù dei nuovi target europei”.