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Un report di Hot or Cool ci spiega perché la moda non è sostenibile

Un report di Hot or Cool spiega perché il settore della moda è ben lontano dall’essere sostenibile e inadeguato a compiere il percorso verso la transizione ecologica

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Foto di Pexels da Pixabay

Per realizzare una reale transizione ecologica è indispensabile rivoluzionare il settore della moda, che al momento non è sostenibile ed è strutturalmente inadeguato alle necessità ambientali e climatiche del pianeta. Questi gli esiti di uno studio di Hot or Cool, che ha definito il settore: unfit, unfair e unfashionable, incapace, per come funziona adesso, di affrontare un percorso verso la neutralità climatica. 

Il report si interroga sugli impatti del settore e li rapporta all’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5° sancito dall’Accordo di Parigi, analizzando le emissioni prodotte dal settore nei paesi del G20 e valutando gli impatti sul bilancio di carbonio disponibile, e stabilisce un obiettivo di impronta azionaria nel consumo pro capite perché la moda, entro il 2030, sia sostenibile. Lo studio si concentra inoltre sulle diseguaglianze, sia in termini di responsabilità (livelli di emissioni) sia in termini di livelli di consumo per fasce di reddito. 

UNFIT: il settore della moda non è sostenibile

Lo studio conclude che il settore della moda è attualmente “unfit”, non adatto all’azione climatica. 

Lungi dal diminuire i propri impatti, secondo i dati UNEP del 2019 il fashion è sulla buona strada per raddoppiare le proprie emissioni entro il 2030 e, entro il 2050 potrebbe essere responsabile di più di un quarto del bilancio mondiale di carbonio. 

Quanto influisce nelle emissioni globali? Le stime variano a seconda delle fonti, il World Resources Institute nel 2021 parlava di una quota del 2%, ma l’UNEP riporta il dato al 10%. Il fatto che non siamo in grado di misurare concretamente quanto la moda sia sostenibile o meno la dice lunga: i dati a nostra disposizione sono inaffidabili, il settore è poco trasparente e limita la possibilità di analisi e verifica da parte del mondo della ricerca scientifica. 

La certezza condivisa è in ogni caso che il fashion è tra i grandi emettitori globali e per raggiungere gli obiettivi climatici stabiliti a livello internazionale è necessario trasformarlo strutturalmente.

L’alternativa è stata definita da  McKinsey & Company & Global Fashion Agenda, che nel 2020 ha affermato che la prospettiva concreta per il mondo della moda è di arrivare a 2,7 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2020. 

UNFAIR: il settore della moda è strutturalmente ingiusto

Oltre che non essere in linea con le necessità del pianeta, il settore della moda si rivela, all’interno dello studio, strutturalmente ingiusto. Il consumo tra i diversi paesi è fortemente diseguale, così come le quote di emissioni: il 20% più ricco del Regno Unito genera una quota di emissioni il cui 83% è già oltre quelle consentite per contenere la temperatura globale entro un grado e mezzo di aumento, mentre il 74% della popolazione indonesiana consuma al di sotto della media del consumo di sufficienza. L’impronta di carbonio tra 14 dei G20 supera il limite fissato dagli Accordi di Parigi: i paesi ad alto reddito (Australia, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Arabia Saudita, Corea del Sud, Regno Unito e Stati Uniti) dovrebbero ridurre l’impronta della propria industria della moda di almeno il 60% entro il 2030; quelli a reddito medio-alto  (Argentina, Brasile, Cina, Messico, Russia, Sudafrica e Turchia) per rendere la propria moda sostenibile dovrebbero tagliare il 40% della propria footprint, mentre per quanto riguarda i paesi a basso reddito come India e Indonesia, l’impronta è già al di sotto dei limiti sanciti dalla COP21. 

Lo studio ha analizzato anche le diseguaglianze all’interno dei diversi Paesi: per un campione rappresentativo di quelli appartenenti ai G20, il quintile di reddito più basso genera tra il 6 e l’11% di emissioni, il secondo quintile tra il 10 e il 13%, il terzo genera circa il 17%, il quarto tra il 24 e il 26% e il quinto tra il 36 e il 42%: le fasce di popolazione più ricche sono quelle maggiormente responsabili dell’impronta di carbonio del mondo della moda. 

Per rimediare a questo quadro, il 20% più ricco delle popolazioni (il quinto quintile) dovrebbe diminuire i propri consumi dell’83% nel Regno Unito, del 75% in Italia e del 50% in Francia. In media, il 20% più ricco delle popolazioni al momento causa 20 volte le emissioni del 20% più povero, anche se il rapporto varia di paese in paese a seconda delle diseguaglianze interne e tra i diversi Stati. 

Rivedere i piani d’azione per rendere la moda sostenibile 

Secondo lo studio, nessun intervento nazionale o internazionale sarà efficace senza ridurre la quota di consumi generata dal 20% più ricco delle popolazioni, non solo per gli impatti diretti generati ma anche per l’influenza che ha sulle aspirazioni del resto della popolazione. 

Si ritiene in genere che le fasce più povere abbiano la propria quota di responsabilità perché alimentano la crescita del fast fashion,  ma sono i più ricchi a generare i maggiori impatti e sono loro, secondo lo studio, la chiave per rendere la moda sostenibile. È su di loro dunque che bisogna intervenire, adottando un approccio che si basi su un’allocazione equa per persona dei bilanci di carbonio, riducendo quindi le emissioni prodotte da chi ne produce di più. 

Costruire uno spazio di consumo equo

L’84% delle emissioni generate dai G20 dal settore della moda avvengono a monte del processo: nella produzione, nella coltivazione della fibra e nella realizzazione degli abiti. Per ridurre questa impronta è necessario ridurre gli acquisti di capi nuovi fino a 4 volte di più di quanto sia necessario invece aumentare il tempo di utilizzo di un capo, e fino a 3 volte di più di quanto non sia urgente decarbonizzare il settore della moda. 

Per raggiungere l’obiettivo di 1,5 gradi, oltre a introdurre una serie di misure come la riparazione, il lavaggio a basse temperatura, l’acquisto di capi di seconda mano, bisognerebbe limitare l’acquisto di nuovi indumenti a una media 5 l’anno. 

Intervenire sui consumi per rendere la moda sostenibile vuol dire ridurre l’acquisto di nuovi capi nei paesi ad alto reddito, riportandolo almeno ai livelli del 2010, implementare modelli circolari e ridurre le emissioni derivate da produzione, commercio, uso e smaltimento. 

Solo un cambiamento sistemico può rendere la moda sostenibile

La sola strada per rendere il settore della moda più sostenibile è introdurre un cambiamento di sistema, in produzione e consumo, con efficientamento del settore ma anche cambiamento negli stili di vita e di consumo. Solo la comunione tra i tre approcci può garantire una reale riduzione dell’impronta di carbonio del settore.

Gran parte degli attuali approcci, invece, guarda solo a un miglioramento tecnologico del settore che, secondo lo studio, non è assolutamente sufficiente per il cambiamento di cui abbiamo bisogno.