(Rinnovabili.it) – Lo scorso martedì è stato pubblicato il rapporto prodotto da The Business of Fashion, che fa il punto sulla sostenibilità dell’industria della moda. Secondo il report c’è bisogno che il settore si adegui alle necessità climatiche e in particolare si impegni verso l’attuazione degli Accordi di Parigi e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile ONU. Alcune realtà, stanno già migliorando le proprie credenziali, ma c’è bisogno di sforzi maggiori.
The Business of Fashion
Il Business of Fashion Sustainability Index è al suo secondo rapporto, redatto analizzando le informazioni rese pubbliche dai grandi marchi a proposito dei propri obiettivi e delle proprie strategie ambientali, oltre che del modo in cui viene assicurato il rispetto dei diritti dei lavoratori.
Il rapporto è stato lanciato lo scorso anno, e nella sua prima edizione ha analizzato 15 grandi brand, già raddoppiati per questa edizione. I risultati hanno dimostrato un divario profondo tra gli impegni annunciati pubblicamente e le strategie effettivamente messe in campo.
Il report distingue i brand in tre categorie: lusso, abbigliamento sportivo e moda street, e valuta i progressi delle aziende nel campo della sostenibilità e in particolare per il raggiungimento degli obiettivi 2030. L’analisi muove da 200 diversi punti distinti di impatto dell’industria della moda distinti in sei categorie: emissioni, acqua e prodotti chimici, rifiuti, materiali e diritti dei lavoratori.
Obiettivo del documento, verificare gli impegni per la sostenibilità delle grandi case di moda, a fronte della crescente pressione verso questi temi da parte dei consumatori, soprattutto i più giovani. Il rapporto ha infatti messo in guardia i brand: continuando di questo passo le aziende rischiano di perdere rilevanza culturale e distruggere il proprio patrimonio.
I dati emersi non sono incoraggianti: a otto anni dal raggiungimento degli impegni di riferimento le performance di sostenibilità di 5 case di moda su 6 sono peggiorate: se lo scorso anno si poteva registrare un progresso dei marchi analizzati, aver aumentato la coorte dei valutati quest’anno abbassa notevolmente la media.
Qualcosa si muove, ma è ancora poco
L’ambito su cui le imprese hanno raccolto più punti è quello della riduzione delle emissioni, ma hanno ottenuto invece punteggi molto bassi per quanto riguarda la riduzione dei rifiuti.
I marchi che l’anno scorso avevano registrato performance positive nell’indice a 15 confermano il proprio ruolo di leader, ma ancora troppo lentamente. I brand originari, infatti, aumentano il punteggio medio passando da 31 a 36 in un anno. Gran parte delle aziende di moda aggiunte quest’anno, invece, ha bisogno di operare sforzi nettamente maggiori per la sostenibilità, attestandosi a un punteggio medio di appena 20 punti.
In generale non c’è un percorso lineare: i progressi, pur esistenti, sono lenti e discontinui.
La media dei punteggi registrati è 28 su 100. Il primo classificato per impegno è PUMA, che conta però appena 49 punti su 100 totali. Segue Kering, che lo scorso anno era al primo posto. Dal terzo posto in poi troviamo Levi Strauss, H&M Group e Burberry, unica new entry a raggiungere la top 10 con 41 punti.
Fanalino di coda URBN, Skechers, Fila Holdings, Anta e HLA Group – tutti brand che hanno realizzato meno di 10 punti perché hanno preso pochi o nessun impegno pubblico.