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Folgiero: visione e sintesi tecnologica, la ricetta vincente a prova di futuro

Nata da appena due anni la NextChem, azienda del gruppo Maire Tecnimont dedicata alla chimica verde, dimostra competitività e capacità di trasformare tecnologie validate in impianti industriali. Ne parliamo con Pierroberto Folgiero, Amministratore Delegato di NextChem.

Folgiero

di Mauro Spagnolo

La profonda crisi generata dal Covid19 ha creato un periodo di discontinuità emotiva e finanziaria in Italia e in tutto il mondo.

Le modalità su come utilizzare questo momento, per non perdere l’opportunità di dare uno spunto all’economia circolare e alla chimica verde, rappresentano un tema affascinante e particolarmente discusso. Il dibattito che si è aperto, in questi giorni sul nostro quotidiano, ci porta ad individuare un’ampia sfumatura di posizioni, dalle più drammatiche a quelle più ottimistiche. In questo quadro risulta particolarmente interessante raccogliere la testimonianza di uno dei manager più autorevoli nel settore della chimica verde, Pierroberto Folgiero, Amministratore Delegato di NextChem.

Dott. Folgiero, come cambieranno gli equilibri sociali ed economici nel nostro Paese a causa della pandemia?

Credo che la grande novità, rispetto a qualche anno fa, sia il fatto che il livello di mobilitazione emotiva e sociale sui temi della sostenibilità ambientale è molto più alto. Anche grazie ai movimenti giovanili oggi la mobilitazione sociale esiste ed è molto diffusa. L’altra novità, sempre legata agli aspetti più emotivi che guidano i consumi, è che anche il Coronavirus impatta sulla mobilitazione sociale. Io son convinto che questa “prigionia domestica” ci abbia fatto capire che si può vivere anche in una maniera diversa; si possono fare cose molto differenti da quelle che pensavamo e che tutto ciò possa avvenire molto in fretta. Abbiamo capito che i grandi cambiamenti di stile di vita, tanto auspicati per spingere sempre più i consumi verso la sostenibilità, sono meno difficili e meno lenti di quello che si pensava.

Ecco perché credo che la mobilitazione sociale c’è e farà la differenza.

Come convogliare questa mobilitazione sociale verso cambiamenti sostenibili reali? 

Io sono un economista industriale per formazione, quindi molto poco antropologo. Tendo a pensare che i cambiamenti sociali siano sempre accompagnati da interessi economici, e che questi interessi possano essere generati anche da investimenti verdi, potenzialmente molto redditivi. La mobilitazione sociale è fondamentale in quanto stimola la domanda, per una giusta causa che è quella di rendere lo sviluppo economico più compatibile con le esigenze e i limiti del nostro pianeta; sta a noi player industriali, che gestiamo interessi economici, fare in modo che gli investimenti verdi siano produttivi. Son convinto che chi ha la capacità di lavorare su questi temi, debba fare un passo avanti fino a che non si riesce a mettere sul tavolo business case verdi che dimostrino le straordinarie potenzialità degli investimenti green.  Immagino che il ponte tra la mobilitazione sociale ed una chimica verde vera sia costituito da persone che, come noi, costruiscono business case finanziabili. Abbiamo la tecnologia e le competenze per ottimizzare questi investimenti, abbiamo la visione industriale per renderli remunerativi, non aspettiamo altro tempo per arrivare a prodotti credibili.

È su questi presupposti che è nata NextChem?

In effetti sì. NextChem è nata dalla sensibilità di gente che fa industria – noi, sulla petrolchimica, facciamo industria in cinque continenti – l’abbiamo creata per studiare e individuare le tecnologie giuste, metterle in relazione tra loro, confezionare business case attrattivi per i capitali verdi, oltre che per rendere concreto il percorso di green acceleration e la sostenibilità del gruppo. I capitali verdi ci sono e sono numerosi, ma hanno chiaramente difficoltà ad essere impiegati in progetti non attrattivi in quanto sono pur sempre capitali.

Dal suo punto di vista privilegiato, essendo alla guida di un grande gruppo industriale che si occupa di settori strategici come quello energetico e della chimica verde, esistono delle relazioni tra Covid 19 e sostenibilità ambientale, sociale ed economica, e se sì, in quali termini?

Dal punto di vista empirico le emissioni durante la pandemia sono fortemente diminuite e la grande attenzione, oggi, è fare in modo che questo effetto contingente non sparisca completamente quando la situazione si normalizzerà.  Nel momento in cui ci sarà una ripresa dei consumi, e quindi anche delle emissioni, la scommessa sarà far in modo che la situazione ambientale non sia nuovamente stravolta. Abbiamo realizzato che i comportamenti possono cambiare più drasticamente di quel che pensavamo. Ecco perché bisogna sfruttare, le ripeto, la mobilitazione sociale. E’ chiaro che non sarà facile, specialmente per quelle società strutturalmente legate all’economia del petrolio.   

Come riusciremo a capitalizzare questi cambiamenti virtuosi?

La sfida è proprio questa. Innanzitutto, debbono ripartire i consumi. A quel punto potremo capire quanto siano cambiate davvero le cose. Le faccio l’esempio dello smart working.  Oggi tutti hanno imparato che si può lavorare comunque stando a casa. Il quesito allora è: qual è quella quota di smart working che sopravviverà quando si tornerà ad una situazione di normalità sociale. Il bioritmo aziendale sarà re-impostato?

Quindi il cambiamento degli stili di vita influirà direttamente sulle scelte e le strategie industriali?

Credo proprio di sì. Il “laboratorio di comportamenti”, secondo me, è l’occasione da non perdere in quanto le persone hanno imparato che si può cambiare. Un esempio personale: non faccio rifornimento alla mia auto dalla fine di febbraio.  Se qualcuno me l’avesse detto sei mesi fa non l’avrei mai creduto. Oggi abbiamo dimostrato che si può non mettere benzina per sei mesi e la vita può continuare. Questo lo definisco un “laboratorio antropologico”, adesso noi player industriali dobbiamo trarne immediatamente insegnamento.

Cosa si può fare in modo che nella “nuova normalità” i comportamenti che oggi hanno ricevuto uno shock positivo, non ritornino alle modalità precedenti?

Noi che lavoriamo non sulla domanda dei prodotti verdi, ma sulla loro offerta, abbiamo il dovere di individuare soluzioni che siano concretamente inserite all’interno del sistema economico. Certo abbiamo bisogno di una nuova regolamentazione, nuove autorizzazioni, nuovi sistemi di incentivazioni, ma dobbiamo iniziare a montare i pezzi di una nuova economia. La sensibilità e la responsabilità di noi industriali in questo meccanismo è assolutamente indispensabile. Fino a quando non ci sarà una presa di responsabilità di chi lavora sul lato dell’offerta non si riuscirà a dare una risposta credibile a questa mobilitazione sociale. Noi dobbiamo costruire il ponte tra soluzioni tecnologiche credibili e le nuove esigenze sociali.

Cosa occorre per realizzare questo ponte?

Occorrono investimenti pubblici e privati. Occorre la buona volontà del Governo, che dovrà ragionare su cicli a lungo temine, ed investire in infrastrutture verdi per attirare capitali. Io credo che sia in atto una trasformazione dell’opinione pubblica ed una trasformazione del mercato dei capitali, e in mezzo ci siamo noi.

Lei più volte ha parlato di una mobilitazione sociale in atto. Come è possibile utilizzare questo fenomeno per sviluppare l’industria e gli investimenti green?

Per sfruttare la mobilitazione sociale l’unica strategia è quella di offrire prodotti green. Oggi esiste una forte domanda green, ma non adeguate offerte sul mercato.

A questo proposito a che punto è arrivata la chimica verde di NextChem?

In questi due anni il nostro principale impegno è andato sulle competenze core, la plastica e sui derivanti chimici, con la finalità di chiudere il gap tra quanto costa il prodotto da materia prima fossile ed il suo corrispondente da materia prima seconda. È chiaro che per ottenere questo abbiamo bisogno anche del sostegno pubblico e di investimenti che riescano a sostenere il lungo periodo di sviluppo tecnologico di questo settore. Le faccio un esempio: per realizzare un impianto di gas circolare, che è una delle nostre ricette, tecnicamente ci vogliono massimo 3 anni ma senza una regolamentazione ad hoc ce ne potrebbero volere 10. È chiaro che non possiamo esser soli nello sviluppo di queste soluzioni. 

Siete quindi riusciti a trovare soluzioni tecnologiche per il gas circolare?

Certo. Oggi siamo in grado di produrre gas circolare, non in quantità “sperimentali”, ma su scala industriale al pari degli impianti di gas convenzionale, ad un prezzo uguale o più basso del gas naturale e senza camino. Quindi parliamo di una soluzione che è economicamente neutra, ed in più con un ciclo produttivo privo di emissioni. Allora risulta chiaro che, se costruiamo un impianto di questo tipo, siamo in grado di proporre soluzioni che intercettano la mobilitazione sociale, risolvono un problema reale, planetario, sono economicamente valide e attirano capitali verdi. Se si riesce a mettere sul mercato l’equity di un impianto di questo genere su scala industriale, lei si immagina quanti capitali verdi potrebbero essere impiegati in questa operazione?

Bisogna offrire prodotti partendo dalle nostre conoscenze distintive per trasformare tecnologie mature e validate in impianti industriali. 

Se riusciamo a far questo creiamo l’incontro tra domanda ed offerta che oggi non c’è. E se ciò avviene con prodotti che costano come quelli convenzionali – ed in più non creiamo emissioni – attiriamo i capitali verdi disponibili. È questa la strategia per attivare un meccanismo che trasforma la mobilitazione in industria, in posti di lavoro, in benessere sociale.  

La tecnologia del gas circolare è una tecnologia già matura o ancora in via di sperimentazione?

La tecnologia del gas circolare è un processo ultra collaudato. La nostra grande innovazione è l’aver avuto la capacità di unire i puntini di un disegno organico, cioè l’aver preso altre tecnologie – solide dal punto di vista della validazione industriale – ed aver, con un po’ di visione periferica, realizzando dei prodotti per la prima volta. Ci siamo detti: andiamo a verificare quali conoscenze sono validate, andiamo a industrializzarle e ad implementarle con altre tecnologie mature. E così siamo in grado di produrre gas circolare. Lo stiamo studiando nello stabilimento Eni di Marghera, in quello di Livorno e abbiamo in progetto di produrlo anche in altri.

Un altro settore in cui la vostra azienda si sta fortemente impegnando è quello della produzione dell’idrogeno. A che punto siamo?

Anche in questo caso parliamo di una tecnologia nota da 100 anni: l’elettrolisi. Nulla di più semplice: hai bisogno di acqua e di energia elettrica – prodotta da fonti rinnovabili – per produrre idrogeno e vapore acqueo senza combustione, e quindi senza emissioni. E una volta che hai l’idrogeno puoi realizzare qualunque prodotto chimico.

Ma allora perché l’elettrolisi non si utilizza ancora fattivamente?

Perché se un chilo di idrogeno, prodotto con elettrolisi, costa 5 volte un chilo di idrogeno prodotto da idrocarburi, non avrà mai un vero spazio sul mercato. Il vero obiettivo è farlo costare uguale – al massimo 1,5 volte se calcoliamo, nel conto economico, anche la produzione di CO2 emessa nel ciclo produttivo da idrocarburi.

Quanto tempo manca per arrivare ad una maturità del mercato dell’idrogeno da elettrolisi?

Probabilmente non prima di cinque anni. La tecnologia degli elettrolizzatori attuali è vetusta e va re-industrializzata. Noi stiamo facendo molta ricerca e sviluppo per fare in modo che attraverso gli elettroni, e non la combustione, si ottenga non solo la separazione dell’H2O, ma anche conversioni chimiche. Stiamo studiando, con alcune Università, degli elettrolizzatori in cui entra energia elettrica ed acqua ed esce, attraverso una reazione elettrochimica, l’idrogeno in pressione. Questo è il futuro, ed è il modo per far scendere il costo dell’idrogeno e renderlo competitivo.

Impianto di produzione di renewable diesel; credits: EKAE, Kansas

Ottenere idrogeno a costi competitivi potrebbe produrre una vera rivoluzione sugli impatti ambientali dell’industria chimica…

Infatti. Tutti i processi di raffinazione, compresi quelli verdi, si basano sulla capacità dell’idrogeno di spezzare la molecola dell’olio vegetale così come l’olio da fonte fossile. Ed il processo di produzione dell’idrogeno da idrocarburi in una raffineria produce la maggior parte delle emissioni complessive dello stabilimento. Se si riuscisse quindi a produrre l’idrogeno circolare, e non più da idrocarburi, avremo ottenuto idrogeno allo stesso costo di quello ottenuto da idrocarburi e compresso vertiginosamente le emissioni di tutto il ciclo produttivo. Noi vogliamo essere propositori di soluzioni mature da subito, soluzioni che abbiano un senso economico industriale.

Con quali obiettivi studiate le tecnologie del riciclo della plastica?

Ci occupiamo sia di riciclo meccanico, con tecnologie di Upcycling, che di riciclo chimico. La soluzione innovativa sul riciclo chimico della plastica segue la stessa logica. Noi andiamo ad individuare prodotti a valore aggiunto, come ad esempio il metanolo – cioè prodotti che creano ritorni per gli investimenti in quanto hanno un intrinseco valore aggiunto – e cerchiamo, da ingegneri chimici, di riciclare la plastica utilizzando il carbonio in essa contenuto per fare chimica verde. La nostra tecnologia converte, chimicamente, il carbonio e l’idrogeno presenti all’interno dei rifiuti plastici trasformandoli in un prodotto a valore aggiunto, e quindi con ritorni economici. Questi ritorni rendono la chimica verde competitiva con la chimica tradizionale. 

Quindi una soluzione ben diversa rispetto alla termovalorizzazione?

Il termovalorizzatore brucia il carbonio e l’idrogeno presenti all’interno dei rifiuti plastici per produrre energia nel migliore dei casi. E non è certo la fine più dignitosa per quella molecola di carbonio, creata dalla natura in milioni di anni, estratta dal sottosuolo, utilizzata per realizzare plastica – chiedendogli, tra l’altro, un sacrifico ambientale non indifferente – e poi, al fine vita, messa in combustione ed emettendo CO2. Se ci pensiamo bene sembra un meccanismo completamente privo di senso.

Lei ha più volte ha nominato una ricetta di resilienza di NextChem, in cosa consiste?

NextChem è resiliente per una serie di motivi. Innanzitutto perché, nell’immediato, si è comportata con agilità ed efficienza nonostante il lock down. Quindi una resilienza, a brevissimo termine, generata dalla natura stessa dell’azienda. Ma è anche resiliente nel lungo termine, in quanto lavora su un business a prova di futuro, perché avere la capacità di trasformare tecnologie tradizionali in tecnologie verdi, che consentono di arrivare a prodotti con costi e caratteristiche confrontabili con quelli convenzionali, è un business per definizione. Ma è resiliente anche perché il suo core business si basa su sfide importanti a prova di futuro.

Cosa significa?

È molto semplice: resilienza dei processi e dei sistemi. Il suo core business coincide con il percorso che collega l’economia degli idrocarburi con l’economia dei non idrocarburi. Consideri che ad oggi abbiamo già circa 100 dipendenti, alcuni con competenze specifiche nell’area dell’economia circolare, gli altri per la maggioranza accuratamente selezionati dai settori del business tradizionali, che si sono riprogrammati per lavorare sui progetti verdi. E la cosa di cui vado fiero e che queste 100 persone sono scevre, non debbono difendere a priori una tesi o perseguire a tutti i costi un unico obiettivo. Attualmente chi fa ricerca sul riciclo chimico della plastica, lavorando ad esempio per una multinazionale che produce plastica, finalizza giustamente il suo lavoro gioco-forza per produrre nuova plastica, approccio plastic to plastic. Noi no. Non abbiamo una tesi ideologica a priori da dimostrare. Noi siamo degli abilitatori di soluzioni trasversali. Solo in questo modo possiamo individuare la combinazione tecnologica abilitante e verificare se sul piano industriale funziona. Questa neutralità di partenza ci dà una straordinaria forza pragmatica.

Una sorta di flessibilità industriale, mi faccia un esempio. 

Produrre idrogeno dal riciclo della plastica. A noi non interessa se andiamo contro uno status-quo, noi siamo dei portatori sani di innovazione e arriviamo sempre a soluzioni pragmatiche, basta che siano abilitanti.

Con le vostre tecnologie, oltre all’idrogeno, è possibile produrre altri elementi dal riciclo della plastica?

Si, il metanolo come dicevo. Quando abbiamo riscontrato che il metanolo è diventato un prodotto importante sul mercato abbiamo scelto di produrlo dal riciclo dei rifiuti plastici.  Anche in questo caso superando il consueto approccio plastic to plastic. E pazienza se questa scelta può modificare gli equilibri delle importazioni di metanolo in Italia.

Fino ad oggi, anche per motivi normativi, il settore dei rifiuti è stato gestito dai waste manager vivendo il rifiuto come qualcosa da trattare e che deve essere comunque tritato, senza valutare fino in fondo le potenzialità chimiche del prodotto.

Noi vogliamo cambiare mentalità e abbiamo studiato il prodotto a ritroso chiedendoci: qual è attualmente un elemento economicamente attrattivo? Il metanolo ad esempio. Si può produrre metanolo dai rifiuti plastici? Si. 

Questa è, secondo me, la mentalità abilitante e vincente.