(Rinnovabili.it) – Gli Stati Uniti decretano lo stop alle trivelle nell’Artico per 5 anni. La decisione riguarda sia le attività di esplorazione che quelle di perforazione per l’intero comparto oil&gas ed è contenuta nel piano 2017-2022 del governo federale sulle nuove concessioni. Festeggiano i gruppi ambientalisti, che su questo tema conducono da anni una dura battaglia. Ma la mossa sembra dettata da ragioni economiche più che dal desiderio di proteggere l’ambiente: lo sfruttamento di idrocarburi nell’Artico non genera profitti e le compagnie stanno via via abbandonando i loro progetti.
Le aree interessate dal provvedimento sono i mari di Chukchi e Beaufort, sulla costa settentrionale dell’Alaska. Inoltre viene limitato lo sviluppo di altre operazioni nella baia di Cook, sul versante centro-meridionale della penisola. Il dipartimento dell’Interno statunitense riconosce che il “fragile e unico” ecosistema artico si troverebbe di fronte a “rischi significativi” se venisse dato il via libera alle trivelle. Al tempo stesso, però, aggiunge candidamente che gli alti costi di esplorazione, in un contesto di prezzi del petrolio ai minimi storici, basterebbe da sé a non rendere appetibile la zona per le compagnie petrolifere.
In tutto, il piano quinquennale lascia comunque aperto alle trivellazioni il 70% dei siti con giacimenti di idrocarburi accertati, la maggior parte nel golfo del Messico. I criteri alla base di questa scelta sono tre: si possono sfruttare le aree con alto potenziale di risorse, che non generano conflitti (cioè l’opposizione forte della società civile) e dispongono di infrastrutture già in loco. L’Artico non li soddisfa, ma come si vede l’ambiente e la decarbonizzazione dell’economia non c’entrano affatto.
Lo scorso luglio gli Usa avevano approvato una moratoria sulle trivelle nell’Artico, che non andava oltre fissare regole più stringenti per le compagnie nel caso di eventuali interventi di emergenza per una fuoriuscita di petrolio. Ma dall’area artica le aziende stavano già ritirandosi: come ha rivelato la Ong Oceana, molte Big Oil tra cui Shell, Conoco Phillips, Eni e Iona Energy hanno rinunciato a sfruttare 350 concessioni rilasciate dai governi per le trivellazioni in quella fragile area di mondo (non solo nel settore americano), proprio perché le operazioni non sono più economicamente sostenibili.