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Uk: calcolare le emissioni sulla base dei consumi?

Assumere il consumo, anziché la produzione, come unità di misura nel conteggio dei gas serra. I ricercatori del Carbon Trust hanno applicato la metodologia su scala globale

Quando parliamo di emissioni nazionali di gas inquinanti, e delle relative politiche di riduzione, facciamo sempre riferimento alle emissioni generate da un determinato paese nella produzione di beni e servizi. Si tratta dopotutto del principio adottato nel protocollo di Kyoto e alla base dell’impegno dei paesi più industrializzati a tagliare collettivamente le emissioni di anidride carbonica del 5,2% nel 2012 sui livelli del 1990. Esiste tuttavia un secondo approccio per il conteggio dei gas serra che invece della produzione assume il consumo come unita’ di misura: ogni paese vede attribuirsi le emissioni relative ai beni consumati, siano essi prodotti localmente o importati (“consumption-based system”). E’ un metodo di per se’ controverso che, se adottato, potrebbe sostanzialmente ridimensionare i tagli registrati dai paesi più ricchi negli ultimi anni. Tutto il Made in China esportato verrebbe annoverato nel bilancio delle emissioni dei paesi importatori. Considerando la delicatezza dell’argomento, la Commissione parlamentare per l’Energia ed i Cambiamenti Climatici ha deciso di avviare uno studio di fattibilità sull’introduzione del sistema di conteggio consumption-based nel Regno Unito e sulle possibili implicazioni nelle negoziazioni delle politiche ambientali a livello globale.

L’istituto di consulenza Carbon Trust ha calcolato che se la Gran Bretagna adottasse oggi un sistema basato sul consumo, il valore complessivo delle emissioni domestiche annuali di anidride carbonica  aumenterebbe del 34%, salendo a 845 milioni di tonnellate. Il totale è stato ottenuto sommando alla produzione nazionale, registrata secondo le regole di Kyoto, le emissione nette derivate dallo scambio con i partner commerciali, ossia la differenza tra le emissioni contenute nei beni e servizi esportati e quelli importati (le cosiddette “emissions embedded in trade”). Un semplice esempio può aiutare a capire meglio il meccanismo. Se la Gran Bretagna importa un’auto dall’Italia, le emissioni di gas inquinanti rilasciate durante la produzione dell’auto verrebbero conteggiate nel bilancio inglese e non, come avviene oggi, in quello italiano. Lo stesso sistema verrebbe applicato nel flusso contrario: se il nostro paese importa petrolio dalla Gran Bretagna, le emissioni generate nella fase estrattiva e durante il trasporto sarebbero a carico dell’Italia. Ma la metodologia adottata dal Carbon Trust va ancora più a fondo, fino ad inglobare l’intera catena produttiva. Prendendo ancora l’esempio dell’auto di cui sopra, l’ammontare di anidride carbonica registrato dal paese consumatore (il Regno Unito) andrebbe ad includere non solo le emissioni generate durante la fase di assemblaggio dell’auto in Italia, ma anche tutte le emissioni prodotte durante i processi propedeutici, dall’estrazione delle materie prime in un paese terzo, alla lavorazione, al trasporto, e via dicendo. Si potrebbe in questo modo arrivare a scrivere la carta d’identità energetica di un prodotto, anche se il sistema di conteggio non è esente da insidie. Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, si rimanda alla nota metodologica pubblicata al riguardo dal Carbon Trust.

 

Considerando la struttura industriale del Regno Unito, relativamente efficiente in termini energetici e orientata verso la produzione di servizi, non è sorprendente il fatto che il paese sia un netto importatore di emissione di anidride carbonica. In altre parole, è come se la Gran Bretagna consumi più CO2 di quanta ne produca, un “deficit” di emissioni facilmente riscontrabile nella gran parte dei paesi più industrializzati che negli ultimi anni hanno spostato all’estero una parte dell’apparato produttivo ad alto consumo energetico e contemporaneamente migliorato l’efficienza domestica (la stessa quantità viene prodotta con meno energia e minor rilascio di gas inquinanti).

I ricercatori del Carbon Trust non si sono limitati all’esempio inglese ed hanno applicato la metodologia su scala globale, riformulando la classifica dei più grandi emettitori secondo la percentuale di aumento delle emissioni. Ne emerge un quadro interessante che in qualche modo inverte la graduatoria a cui siamo abituati. Svezia e Francia registrano alcuni tra gli incrementi di emissioni più vertiginosi, un dato dovuto principalmente alla bassa intensità energetica delle rispettive economie. L’Italia si attesta in sesta posizione e rivela un aumento di poco più del 20%. Cio’ vuol dire che se conteggiassimo la totalità di anidride carbonica generata per produrre tutti i beni ed i servizi consumati nel nostro paese nel 2008, la carbon footprint nazionale sarebbe maggiore di un quinto. All’altro capo della classifica campeggia manco a dirlo la Cina, il maggior esportatore mondiale di anidride carbonica – il 23% delle emissioni cinesi è generato nella produzione di beni successivamente esportati.  Il flusso di emissioni tra paesi ricalca quasi specularmente le vie del commercio mondiale. Con uno sguardo al futuro, il Carbon Trust stima che nel 2025 il Regno Unito potrebbe potenzialmente importare tante emissioni quante ne produce localmente.

 

Alcuni esperti ritengono che un sistema di monitoraggio dei gas serra basato sul consumo sia più aderente alla realtà dei flussi di emissioni a livello globale e potrebbe contribuire ad una condivisione più equa degli impegni nazionali in materia di riduzioni. La statunitense National Academy of Science ha recentemente pubblicato una breve analisi sull’argomento, in cui auspica che il sistema consumption-based sia affiancato all’attuale territorial-based, seppure su base volontaria e inizialmente limitato ai paesi più industrializzati. E’ probabile che tale raccomandazione possa trovare menzione nel report finale che la Commissione parlamentare sull’Energia ed i Cambiamenti Climatici stilerà al termine del processo di consultazione.