Nessun vincolo a rispettare le convenzioni internazionali sull'ambiente, il clima e il lavoro. Il TTIP potrebbe abbattere gli standard europei in materia
(Rinnovabili.it) – La promessa della Commissione europea era chiara: il TTIP deve «salvaguardare le regole base di protezione dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente». Ma la proposta, avanzata dai negoziatori di Bruxelles per un capitolo sullo sviluppo sostenibile nel trattato di libero scambio USA-Ue, sembra andare in senso contrario.
La scorsa settimana si è concluso l’11° round negoziale a Miami. Come anticipato dalla Suddeutsche Zeitung, il meeting ha visto le delegazioni dei due blocchi portare sul tavolo della trattativa due temi scottanti: ambiente e lavoro. Già dalle vaghe proposte contenute nel mandato negoziale, pubblicato dalla Commissione europea un anno fa, le organizzazioni ambientaliste e della società civile avevano avanzato preoccupazioni in merito al rischio di demolizione di questi due avamposti del diritto comunitario. Ma le supposizioni hanno preso corpo nel fine settimana, quando il Guardian ha pubblicato in esclusiva il testo – filtrato clandestinamente – della proposta europea per un Trade and Sustainable Development Chapter nel TTIP.
La bozza contiene impegni non vincolanti per la salvaguardia ambientale e nessun obbligo di ratifica delle convenzioni internazionali in materia. Mancano del tutto le modalità con cui le parti si impegnano ad assicurare il rispetto degli obiettivi sulla biodiversità, i prodotti chimici e il commercio illegale di animali selvatici.
Nella proposta della Commissione europea, viene riconosciuto il «diritto di ciascuna delle parti a determinare le proprie politiche di sviluppo sostenibile e le proprie priorità». Tuttavia, questa facoltà impallidisce di fronte a una delle clausole più temute del trattato: l’ISDS. Grazie a questo meccanismo, le imprese straniere possono citare in giudizio uno Stato che vìoli le loro aspettative di profitto in qualsiasi modo, ricorrendo a corti arbitrali sovranazionali bazzicate da avvocati e giudici sovente in conflitto di interessi (leggi anche: ISDS, l’arma delle multinazionali contro l’ambiente). L’ISDS (Investor-to-State Dispute Settlement) è una potente arma che il TTIP consegna nelle mani del privato: la paura di incappare in condanne milionarie o miliardarie, infatti, potrebbe dissuadere un governo dall’emanare una normativa che limiti il raggio d’azione di una azienda, anche se il provvedimento fosse teso alla tutela dell’ambiente o della popolazione. Dopo mesi di proteste pubbliche, la Commissione europea ha proposto un nuovo meccanismo, chiamato Investment Court System, che idealmente dovrebbe trasformare l’ISDS in senso progressista. Tuttavia, secondo le Campagne Stop TTIP, questa novità produce solo cambiamenti di facciata, lasciando intatto il privilegio per l’investitore estero di denunciare un governo troppo attento al sociale, all’ambiente o ai cambiamenti climatici.
Di fronte a questo rischio concreto, le promesse sullo sviluppo sostenibile mostrano tutta la loro inconsistenza. Negli ultimi 20 anni, il 60% delle 127 cause ISDS intentate dalle aziende agli Stati membri dell’Unione europea riguardava proprio l’ambiente. E si tratta soltanto di quelle note al pubblico, perché molte restano secretate. L’assenza di clausole che impediscano i ricorsi delle imprese all’arbitrato quando la legislazione nazionale è tesa a salvaguardare l’interesse generale, rende inapplicabili le disposizioni contenute nella bozza europea.
Inoltre queste contrastano con altre possibili parti dell’accordo: la proposta dell’Ue riguardante un capitolo energia nel TTIP, trapelata nel luglio 2014, chiede di «includere un impegno giuridicamente vincolante che garantisca la libera esportazione di petrolio greggio e gas». In caso di intesa, gli Stati Uniti dovrebbero cestinare le attuali leggi che scoraggiano le esportazioni di gas naturale e vietano quelle di petrolio. Diretta conseguenza di tutto ciò sarebbe l’aumento globale delle emissioni e una ulteriore spinta all’estrazione di combustibili fossili.
Se uno dei due blocchi si comporta in spregio alle normative ambientali o di tutela dei cittadini, tuttavia, esiste la possibilità di aprire un contenzioso fra governi (State-State Dispute Settlement) per costringere l’inadempiente a mettersi in regola. Ma questo è destinato a restare un sogno: per attivare la controversia, un attore privato – ad esempio una organizzazione ambientalista – deve convincere lo Stato e spingerlo a denunciare l’altro contraente. Significa che deve superare due ostacoli, quello delle ricadute diplomatiche e quello dei costi finanziari. Senza contare che, quand’anche la disputa terminasse con la condanna del colpevole, non sono previste sanzioni commerciali o penalità.