(Rinnovabili.it) – Quali saranno gli impatti del TTIP sull’agroalimentare italiano? Se lo è chiesto ieri la Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati, nell’ambito di un’indagine conoscitiva appena avviata sul tema. Il TTIP (Partenariato transatlantico sul commercio e gli investimenti) – che Unione Europea e governo degli Stati Uniti discutono a porte chiuse dall’estate 2013 – comincia a far drizzare le antenne anche alle istituzioni italiane. La consultazione ha coinvolto rappresentanti di Slowfood e della campagna Stop TTIP Italia, che hanno risposto alle domande dei parlamentari.
Dal dibattito è emerso che in alcuni settori, come l’agroalimentare, gli impatti di una liberalizzazione degli scambi come quella promossa dall’accordo USA-UE avranno una risonanza particolare. Il TTIP, infatti, prevede l’abbattimento delle tutele dei marchi nostrani (Doc, Dop, Igp), così che i prodotti di maggior qualità si troverebbero a competere con degli omonimi a basso costo (gli americani li chiamano “Italian sounding”). Secondo i dati raccolti dal Parlamento europeo e citati da Stop TTIP Italia, per quanto riguarda il settore agroalimentare il Vecchio continente vedrebbe crescere le proprie esportazioni verso gli Stati Uniti del 60%, ma questi ultimi aumenterebbero le proprie del 120%. La lista dei prodotti americani che sfocerebbero nel mercato europeo è capeggiata da carne rossa (derivata da animali gonfiati con ormoni e antibiotici), bianca (da carcasse di pollo lavate nel cloro) e zucchero e farina (potenzialmente ottenute da Ogm).
Due mondi troppo diversi
Conciliare mentalità europea e statunitense, secondo i critici, non può significare altro che un accordo al ribasso. Viene difficile pensare, sostengono, che se lo scopo è snellire i flussi commerciali all’Europa verrà accordato di estendere agli USA un approccio basato sul principio di precauzione. Le tutele che questo assicura, anche nel campo delle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS), sono troppo superiori a quelle garantite dal sistema americano, il quale riversa sulle agenzie pubbliche l’onere di certificare la non tossicità di un prodotto. Questo significa meno burocrazia per le aziende, e maggior facilità di mettere sul mercato una merce. Ma anche che gli accertamenti potrebbero essere fatti con anni di ritardo, a seguito di malattie e decessi “sospetti”. Eppure questo approccio consente agli Stati Uniti di utilizzare in agricoltura 82 pesticidi che in UE sono vietati. E che, secondo uno studio del Ciel, una volta approvato il TTIP potrebbero sbarcare anche nel Vecchio continente (leggi anche: Con il TTIP via libera a 82 pesticidi vietati in UE).
Le paure delle organizzazioni europee riguardano anche l’etichettatura dei prodotti agroalimentari, che gli Stati Uniti considerano come una barriera al libero scambio. Ma questo significherebbe una minore informazione per il consumatore. Nonostante le rassicurazioni del governo italiano sulla esclusione degli OGM dalle trattative sul TTIP, non c’è stata alcuna presa di posizione in questo senso da parte dei negoziatori. Gli Stati Uniti, infatti, hanno dichiarato più volte che senza un’intesa «coraggiosa» sul capitolo dell’agroalimentare il trattato non si discute nemmeno.
Non serve nemmeno definire subito il quadro, sotto i riflettori scomodi della pubblica opinione. La volontà dei due blocchi, emersa da un documento trapelato a fine gennaio, è quella di modificare dettagli potenzialmente anche molto importanti dopo che il trattato sarà entrato in vigore. Cosa che avverrebbe tramite la creazione di un organismo per la cooperazione regolatoria, un gruppo di tecnici nominati da Commissione europea e governo degli Stati Uniti con il compito di ispezionare tutte le leggi dei Parlamenti nazionali che i portatori di interesse – comprese le aziende – ritengono in contrasto con le finalità del TTIP. Questo potrebbe allungare a dismisura i tempi della legislazione, rallentando, o addirittura scoraggiando, l’introduzione di regolamenti a tutela del consumatore.
L’arma più letale del TTIP
L’altra questione che spaventa le Ong, ma anche molti partiti politici e governi, è la clausola ISDS (Investor-State Dispute Settlement). Si tratta di un meccanismo di risoluzione delle controversie tra Stato e investitore privato, che permette a quest’ultimo di fare causa, nell’ambito di trattati internazionali come il TTIP, ai governi che adottano normative potenzialmente dannose per i suoi profitti. È dunque possibile che un’impresa americana denunci un governo europeo (e viceversa) qualora abbia adottato una legislazione che potrebbe impedirle di realizzare i profitti attesi. Il processo avviene dinanzi a corti di arbitrato sovranazionali, scavalcando i tribunali ordinari. Gli arbitri che le presiedono provengono da una ristretta cerchia di avvocati commerciali, e i processi si svolgono a porte chiuse. La sentenza è inappellabile, e nella maggior parte dei casi vede gli Stati soccombere alle richieste delle aziende. Richieste che si concretizzano in risarcimenti monetari anche di entità considerevole, o nel ritiro delle normative oggetto del contendere. La compagnia energetica svedese Vattenfall, per fare un esempio, ha impugnato il regolamento tedesco che – per tutelare l’ambiente – avrebbe impedito alla sua centrale a carbone di scaricare le acque reflue nel fiume Elba. La corte ha dato ragione all’azienda, e nel 2009 il governo ha dovuto fare marcia indietro. È solo uno degli oltre 600 casi (noti) in cui la politica ha dovuto sottostare alle leggi dell’economia (leggi anche ISDS: l’arma delle multinazionali contro l’ambiente).