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Con Trump l’Accordo di Parigi è davvero a rischio?

Con Trump l'Accordo di Parigi è davvero a rischio?

 

(Rinnovabili.it) – Trump riuscirà davvero a smantellare il Clean Power Plan di Obama? Quali sono le conseguenze per gli Usa dell’ordine esecutivo firmato ieri dal neo presidente? E cosa succederà ora nell’arena internazionale? L’Accordo di Parigi è a rischio, oppure è a rischio soltanto la leadership climatica degli Stati Uniti? Il provvedimento Energy Independence approvato ieri dalla Casa Bianca dà il via libera allo sfruttamento del carbone sulle terre federali, riscrive i limiti delle emissioni di metano per l’industria degli idrocarburi, congela i calcoli sul costo sociale delle emissioni finora integrati in ogni disegno di legge. Inoltre dà mandato all’Epa di iniziare una revisione completa del Clean Power Plan e, soprattutto, sembra preludere all’uscita degli Usa dall’Accordo sul clima di Parigi.

 

Più posti di lavoro nel carbone?

Il mantra di Trump è che la crescita economica può andare di pari passo con la protezione dell’ambiente. Ma secondo molti questo provvedimento non servirà a migliorare un’industria in declino come quella del carbone.

La concorrenza del gas e delle rinnovabili da un lato, l’incalzare dell’innovazione tecnologica dall’altro, riducono in ogni caso il personale impiegato nelle miniere. E non lo dicono solo gli oppositori di Trump o qualche Ong ambientalista. Lo ha affermato – e ripetuto pochi giorni fa in faccia al presidente – Robert Murray, fondatore della Murray Energy, la più grande compagnia del carbone degli Stati Uniti. Benché appoggi su tutta la linea l’azione di Trump (Murray sostiene ad esempio che non esiste un problema di riscaldamento globale, ma soltanto un problema di costo dell’energia), ha ribadito che il provvedimento non farà aumentare i posti di lavoro nel settore.

 

Con Trump l'Accordo di Parigi è davvero a rischio?

 

Un settore in declino

D’altronde sarà il mercato a dire l’ultima parola: poter fare investimenti non significa automaticamente che le aziende inizieranno davvero a investire, soprattutto se la convenienza dei potenziali profitti – come nel caso del carbone – non sembra particolarmente allettante. Lo conferma uno sguardo al panorama dell’industria del carbone americana. Le compagnie attive nel settore e potenzialmente interessate a sfruttare i bacini delle terre federali – Peabody Energy, Arch Coal, Cloud Peak – hanno già permessi di sfruttamento sufficienti per almeno 17 anni ai tassi di vendita del 2015. Non solo, potrebbero già ora incrementare la produzione ma non lo fanno perché il mercato non lo richiede.
Gli analisti del comparto energetico infatti hanno pochi dubbi: il provvedimento di Trump non riuscirà a far diventare competitivo il carbone rispetto al ben più economico e abbondante gas naturale. «Queste iniziative evitano che le cose peggiorino per il carbone, ma non lo aiuteranno molto», tira le somme Charles Dayton dell’azienda di consulenza Doyle Trading Consultants, che monitora da vicino le riserve sulle terre federali.

 

L’impatto ambientale negli Usa

Per Carlo Carraro, vice-presidente dell’IPCC, il Gruppo intergovernativo dell’Onu sul cambiamento climatico, Energy Independence non avrà neppure troppe ripercussioni sulla normativa ambientale negli Usa. La maggior parte delle decisioni in materia, infatti, sono prese dagli Stati, e molti hanno ormai politiche ambientali estremamente avanzate. Basta pensare alla California, che da mesi è impegnata in un braccio di ferro con Trump e si pone come capofila degli Stati “disobbedienti”. «Mi aspetto un impatto limitato dell’ordine esecutivo di Trump sull’ambiente – commenta Carraro – In questo settore le decisioni sono prese dagli Stati, molti dei quali hanno già piani ambientali autonomi e ambiziosi, penso alla California o agli stati della East Coast».

 

Con Trump l'Accordo di Parigi è davvero a rischio?

 

La Cina ringrazia

Potrebbe persino rivelarsi un clamoroso autogol, la mossa di Trump. Perché la leadership climatica che gli Usa hanno finora mantenuto non si traduce soltanto in photo opportunity alle varie COP o dichiarazioni di rito piene di ottimismo e speranza, ma significa soprattutto un imponente input al settore Ricerca e Sviluppo. In altre parole, il rischio paventato da più parti è che gli Usa perdano uno dei loro vantaggi strategici più importanti, cioè l’essere tecnologicamente all’avanguardia da decenni.
«Stanno rinunciando alla posizione di leadership e sospetto che sarà occupata da altri Paesi competitivi», spiega Thomas Stocker, ex guida dell’IPCC. E per Stoker potrebbe essere la Cina. Sempre a Pechino guarda Myles R. Allen, scienziato del clima dell’università di Oxford: «Se la Cina considerasse gli Usa miopi potrebbe persino accogliere questa scelta come un’opportunità per strappare la leadership sul clima».

 

La fine dell’Accordo di Parigi?

Nonostante il coro di accusa pressoché unanime rivolto dai principali leader mondiali alla scelta degli Usa, è molto improbabile che la decisione di Washington possa far naufragare l’Accordo di Parigi. Sul piano tecnico, il patto sul clima resterà in vigore anche qualora gli Usa se ne chiamassero fuori, dato l’altissimo numero di adesioni e ratifiche ormai raggiunto. Senza contare che la procedura per uscire formalmente dall’Accordo non ha tempi brevi. Ad ogni modo, gli Usa stanno decisamente invertendo la rotta: uno studio del Rhodium Group stima che il provvedimento di Trump potrebbe bloccare il taglio delle emissioni Usa al 14% rispetto ai livelli del 2005, mentre gli obiettivi ufficiali stabiliti sotto Obama parlano di -26/28% entro il 2025.

Ma le dichiarazioni dei leader di altri grandi Paesi inquinatori come la Cina stessa, ma anche l’India, senza tralasciare l’Unione Europea, vanno in direzione opposta: tutti ribadiscono il proprio impegno a rispettare gli obiettivi sul clima. Il primo momento di verifica sarà senz’altro la COP23 in programma a Bonn il prossimo novembre, quindi la revisione degli obiettivi globali sul clima in calendario per il 2018. Lì si vedrà se alle parole si intende far seguire i fatti.

Pareri discordanti, invece, sui vantaggi e gli svantaggi di un Accordo senza Stati Uniti. Secondo Johan Rockstrom dello Stockholm Resilience Centre dell’università di Stoccolma “il tallone d’Achille dell’Accordo di Parigi è che si basa sul consenso”. Ciò significa che potrebbe essere difficile mantenere gli obiettivi attuali, o migliorarli, con l’opposizione “interna” di Washington. Meglio, dunque, che gli Usa escano dal patto. Al contrario, Oliver Geden del German Institute for International and Security Affairs mette in guardia da questa eventualità: ogni decisione in seno al Patto diventerebbe piuttosto irrilevante senza la più grande economia al mondo e “il momento favorevole potrebbe svanire molto presto”.

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