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Trivelle: perché il referendum è legato allo scandalo Guidi

Un filo rosso unisce la SEN, lo Sblocca Italia, il regalo del Ministro al compagno e il referendum sulle trivelle del prossimo 17 aprile

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(Rinnovabili.it) – Il comitato degli “Ottimisti e razionali”, che si batte per i fallimento del referendum sulle trivelle, si è affrettato a dichiarare che le dimissioni del Ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, non hanno «nulla a che fare con il referendum del 17 aprile, ed è semplicemente vergognoso che si cerchi di utilizzarlo per invitare a votare Sì».

In realtà, non è difficile ricondurre lo scandalo al contesto che ha prodotto il momento referendario. L’operato del Ministero, infatti, soprattutto da quando è stata varata (marzo 2013) la Strategia energetica nazionale (SEN), si colloca nel solco di una riorganizzazione della governance che incide pesantemente sulle decisioni in materia di infrastrutture ed energia. E il regalo della Guidi al compagno Gianluca Gemelli è stato confezionato sfruttando e plasmando proprio le indicazioni contenute in quella strategia e contestate dai promotori del referendum.

 

Il contesto dello scandalo

trivelle fossili 2Nello specifico, il “nuovo corso” tracciato dalla SEN punta a liberare l’azione di governo dalle pastoie dei rapporti con le Regioni. A tale scopo, il documento suggerisce di «affrontare la modifica della Costituzione […], per riportare in capo allo Stato le competenze legislative in materia di energia per quanto riguarda le attività e le infrastrutture energetiche di rilevanza nazionale».

Così facendo, l’esecutivo intende tagliare fuori dal processo decisionale gli Enti locali, che in materia di energia verrebbero relegati al mero ruolo di spettatori, velocizzando i processi autorizzativi. Magari con un occhio di riguardo per quelli che regalano 2,5 milioni di euro al compagno del Ministro dimissionario.

Da questa visione accentratrice discende l’ormai celebre (e contestatissimo) Sblocca Italia, approvato nel novembre 2014. Un decreto che prepara il terreno alla riforma del Titolo V della Costituzione, per la quale, l’11 e 12 aprile, è atteso l’ultimo via libera del Senato.

È proprio nel solco di questo disegno politico che l’ormai ex Ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, ha promosso l’emendamento contenuto nel maxiemendamento voluto dal governo alla Legge di stabilità 2015. Con questa modifica, in capo al governo non passavano soltanto le autorizzazioni per la costruzione e la gestione di impianti per l’estrazione di idrocarburi, ma anche «le opere necessarie al trasporto, allo stoccaggio, al trasferimento degli idrocarburi in raffineria, alle opere accessorie, ai terminali costieri e alle infrastrutture portuali strumentali allo sfruttamento di titoli concessori, comprese quelle localizzate al di fuori del perimetro delle connessioni di coltivazione».

In pratica, a tutti quei progetti che iniziano per “T” e finiscono per “empa Rossa”.

 

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Il nesso con il referendum sulle trivelle

«In questo contesto, il referendum vuole essere un momento di discontinuità – commenta Enrico Gagliano, tra i coordinatori del movimento No Triv – Va invertita la direzione fissata dalla Strategia energetica nazionale, che culminerà nella riforma del Titolo V. La consultazione del 17 aprile, insieme a quella di ottobre, rappresenta l’unico momento per riaffermare la volontà dei cittadini di riavvicinarsi al processo decisionale».

Infatti, finché il Parlamento non avrà cambiato la Carta, l’articolo 38 dello Sblocca Italia presenta diversi profili di incostituzionalità. È per opporsi a questo disegno di riorganizzazione della governance che il referendum sulle trivelle è stato fortemente voluto dai movimenti e promosso da 9 Consigli regionali. Originariamente, quando i quesiti erano 6, i promotori chiedevano esplicitamente di perfezionare lo strumento del Piano delle aree, inserito nello Sblocca Italia dalla Legge di stabilità 2015. Esso era l’unico strumento di pianificazione condivisa fra governo e Regioni delle aree da destinare alle attività petrolifere. Ma è stato clamorosamente abolito con la Legge di stabilità 2016, fingendo di venire incontro alle richieste referendarie (leggi di più). L’incostituzionalità palese di questa misura, tuttavia, non si è potuta accertare: la Consulta ha deciso di non entrare nel merito dei ricorsi di 6 Regioni appellandosi ad un cavillo procedurale (leggi di più).