Il 9 marzo la Corte Costituzionale potrebbe riabilitare due quesiti sulle trivelle. Se Mattarella attenderà il parere, il referendum dovrà essere spostato
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(Rinnovabili.it) – E se il 17 aprile non si tenesse nessun referendum sulle trivelle? Se la data fissata dal governo per la consultazione promossa dal movimento No Triv insieme a 9 Regioni dovesse slittare? Sono interrogativi che si fanno sempre più pressanti, in particolare dopo l’articolo apparso sull’edizione di ieri del Messaggero (pag. 9). «Lo slittamento potrebbe rendersi necessario – riporta la testata romana – a seguito dell’ultima carta calata da sei Consigli regionali che hanno presentato alla Corte Costituzionale due conflitti di attribuzione su altrettanti quesiti esclusi dalla Cassazione lo scorso gennaio».
Nel caso la Consulta dovesse ritenere ammissibili i ricorsi, infatti, i cittadini italiani sarebbero chiamati ad esprimersi non solo sulla durata delle trivellazioni in mare, ma anche sul Piano delle aree (strumento di pianificazione delle trivellazioni che prevede il coinvolgimento delle Regioni) abolito dal governo con un emendamento alla legge di stabilità. Non solo, tornerebbe in vita anche il quesito sulla durata dei titoli per la ricerca e lo sfruttamento degli idrocarburi liquidi e gassosi in terraferma. La Corte si pronuncerà il 9 di marzo, con un verdetto che potrebbe costringere il governo a rivedere la data del referendum, dal momento che vanno garantiti 45 giorni di campagna referendaria. La palla è ora nelle mani del presidente della Repubblica, che deve decidere se firmare il decreto dell’esecutivo (con la data del 17 aprile) o aspettare il verdetto della Consulta.
Il Colle andrà allo scontro con la Consulta sulle trivelle?
Non si tratta unicamente di voci di corridoio: l’articolo cita stralci presi dai conflitti di attribuzione in mano alla Corte. In quelle pagine si denuncia un «eccesso di potere legislativo» che ha portato all’approvazione di norme «volte non a evitare il referendum, bensì ad eluderlo».
La cancellazione del Piano delle aree, in particolare, non ha risolto le richieste del quesito referendario: esso prendeva di mira le attività di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi già autorizzate, e chiedeva «che fino all’adozione del Piano non potessero essere rilasciati nuovi titoli». Cestinando l’intero strumento di pianificazione, invece, «la richiesta referendaria è stata elusa».
La riflessione è d’obbligo: se dei documenti riservati sono filtrati sulle pagine dei giornali, è possibile che la Consulta abbia inteso mandare un messaggio al governo e soprattutto al custode della Costituzione, il presidente della Repubblica. Come a dire: attenzione a firmare il decreto, perché ci sono ancora due quesiti in ballo, e hanno tutte le carte in regola per essere riammessi. Se così fosse, un uomo come Sergio Mattarella ci penserebbe due volte ad andare allo scontro con i giudici del cui consesso ha fatto parte dal 5 ottobre 2011 al 2 febbraio 2015. E magari potrebbe scontentare il premier Renzi, che ne ha combinata una più di Bertoldo pur di far fallire la consultazione. La scelta del 17 aprile, infatti, è quella che lascia poco margine alle Regioni e ai No Triv per informare adeguatamente i cittadini sui contenuti della campagna referendaria, ma soprattutto è lontana dal 6 giugno, data del primo turno di elezioni amministrative. Un accorpamento tra i due momenti di espressione democratica avrebbe permesso di risparmiare circa 360 milioni di euro, eppure il governo ha detto no all’election day. Forse, però, stavolta sarà costretto a fare marcia indietro. E sarebbe davvero ingiustificabile se stabilisse una data diversa da quella invocata da Regioni e movimenti.
I No Triv: non c’è ragione di evitare l’election day
«In questi giorni si è detto che le due tornate elettorali debbano essere mantenute distinte e che non vi sarebbe prassi al riguardo – denuncia Enzo di Salvatore, costituzionalista che ha redatto i quesiti referendari – E si è aggiunto che il mantenimento di due diverse date sarebbe giustificato dal fatto che mentre il referendum popolare interessa tutto il corpo elettorale, le elezioni amministrative interesserebbero solo parte del corpo elettorale, votandosi solo in 1.342 Comuni. Ricordo, però, che nel 2009 il referendum sulla legge elettorale è stato accorpato con il ballottaggio alle elezioni amministrative: ballottaggio che, com’è noto non riguarda tutti i Comuni che vanno al voto (applicandosi, nei fatti, solo ai Comuni che abbiano più di 15.000 abitanti) e che in ogni caso interessa solo quei Comuni per i quali nessuno dei candidati abbia ottenuto la maggioranza assoluta dei voti validamente espressi. Si dimentica, piuttosto, che in tutta la storia dei referendum abrogativi si è andati al voto in aprile solo due volte (nel 1993 e nel 1999) e che tranne rare eccezioni si è sempre votato in due giorni e non già in uno solo».