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Trivelle, la Consulta boccia i ricorsi con un cavillo

Trivelle, la Consulta boccia i ricorsi con un cavillo

 

(Rinnovabili.it) – La Corte Costituzionale ha bocciato i due ricorsi per conflitto di attribuzione avanzati da 6 Regioni italiane con l’intento di riabilitare due quesiti del referendum sulle trivelle. Nel caso di parere positivo, si sarebbe riaperta anche la possibilità di accorpare la data del referendum con il primo turno delle elezioni amministrative, che avrebbe consentito di risparmiare circa 370 milioni di euro di soldi pubblici.

Se il danno è che non vi sarà un referendum su tre quesiti, la beffa è che non vi sarà per colpa di una ordinanza basata su un cavillo procedurale ampiamente discutibile. Quello della Consulta, infatti, non è un pronunciamento nel merito: i giudici si sono fermati prima, rigettando i ricorsi perché «non è stata espressa la volontà di sollevare detti conflitti da almeno cinque dei Consigli regionali che avevano richiesto il referendum prima delle modifiche legislative sopravvenute».

In pratica, notano che cinque dei sei delegati regionali promotori dei ricorsi non avevano alle spalle una nuova deliberazione del Consiglio. Perciò li ritengono non legittimati a rappresentare la loro Regione. Solo il Veneto, infatti, ha deliberato in tal senso il giorno stesso (19 gennaio) del primo pronunciamento della Corte sul referendum.

 

Il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato era stato sollevato dopo che i provvedimenti governativi, inseriti nella legge di stabilità, invece di accogliere le richieste referendarie le avevano eluse (leggi anche: Il governo tenta di sabotare il referendum No Triv). Le Regioni si sono sentite ingannate e hanno deciso di chiamare la Consulta a dirimere la questione. Ma anche i giudici hanno sgambettato i promotori.

«I ricorsi relativi alle richieste di referendum sulla ‘pianificazione delle attività estrattive degli idrocarburi’ e sulla ‘prorogabilità dei titoli abilitativi a tali attività’ – spiega il Coordinamento No Triv in una nota – sono stati bocciati per mere cause procedurali. Le sei Regioni promotrici del comitato ufficiale per il SI (Basilicata, Puglia, Liguria, Marche, Sardegna, Veneto) avevano proposto il conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato su entrambi i punti: il primo nei confronti della Cassazione, il secondo, quello sul Piano delle aree, anche nei confronti di Camera, Senato e governo».

 

Le contraddizioni nella sentenza

Enzo Di Salvatore, coordinatore No Triv
Enzo Di Salvatore, costituzionalista

«La decisione di oggi solleva perplessità – sottolinea Enzo di Salvatore, costituzionalista ed estensore dei quesiti referendari – Come mai a gennaio la costituzione in giudizio del delegato abruzzese effettuata a nome del Consiglio regionale è stata ammessa senza che alle spalle vi fosse una previa delibera?».

In effetti, la Regione Abruzzo decise di sfilarsi dai 10 promotori senza un atto ufficiale dell’assemblea, generando scalpore. Perché in quel caso la Consulta fece passare tutto in cavalleria mentre oggi usa pesi e misure diversi nel valutare i ricorsi? Sembra una domanda legittima, ma destinata a rimanere aperta.

Le obiezioni del costituzionalista Di Salvatore, tuttavia, non sono finite: «Se il referendum fosse stato promosso tramite la raccolta delle 500 mila firme – osserva – il Comitato promotore avrebbe potuto avanzare questi stessi ricorsi senza una delibera firmata da mezzo milione di persone. Perché se il percorso referendario è avviato dalle Regioni il Comitato necessita di un passaggio in più per agire in quella sede?».

Tanto più che se nel primo caso (referendum promosso tramite raccolta di firme) sono sufficienti 3 membri su 10 del Comitato promotore, nel secondo (referendum promosso dalle Regioni) le Regioni ne hanno inviati ben 6 alla Consulta, cioè la maggioranza assoluta. Segno della convinzione di aver fatto tutti i compiti e anche qualcosa in più.

 

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Sulle trivelle il governo ha eliminato gli interlocutori

Con una sentenza favorevole nel merito da parte della Corte, il governo sarebbe stato costretto a stabilire vincoli temporali per le autorizzazioni e a reistituire il Piano delle aree – cestinato dalla legge di stabilità – che obbliga l’esecutivo a pianificare le attività estrattive insieme ai territori. D’ora in poi, invece, l’opinione delle Regioni non avrà validità quando toccherà scegliere le zone da trivellare. Facile immaginare che l’eliminazione di qualsiasi spazio negoziale porterà ad un aumento degli attriti fra politica nazionale, locale e movimenti in difesa dell’ambiente. L’ultimo baluardo, la Corte Costituzionale, è venuto a mancare proprio nel momento cruciale. Sfuggendo al pronunciamento nel merito, i giudici si sono sostanzialmente lavati le mani di una questione che può recidere gli ultimi legami tra governo e società civile, ridurre il potere decisionale dei cittadini e permettere ai governi di calare dall’alto le scelte più impattanti per le comunità.

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