(Rinnovabili.it) – L’Italia mette in campo tre proposte per affrontare il cambiamento climatico alla COP 21, la conferenza UNFCCC di Parigi sulla quale si alzerà il sipario a fine novembre. Questo è l’obiettivo dell’incontro tenutosi ieri alla Camera dei Deputati, organizzato dalla fondazione Centro per un futuro sostenibile di Francesco Rutelli. È stato un palcoscenico dal quale riepilogare lo stato dei negoziati e lanciare tre possibili soluzioni complementari alla riduzione della CO2. Le ha elaborate un gruppo di esperti (scienziati, economisti, giuristi) italiani: Carlo Carraro, Alessandro Lanza, Antonio Navarra, Francesca Romanin Jacur e Riccardo Valentini. I cinque hanno deciso di convergere su tre macroaree di intervento, sulle quali si potrebbe lavorare anche al di fuori delle trattative condotte in seno alle Nazioni Unite. Questo permetterebbe di attaccare la concentrazione di emissioni da lati diversi, contribuendo anche in modo significativo alla loro riduzione.
Le tre proposte dell’Italia
La task force italiana propone di:
1. Accelerare l’eliminazione di alcuni gas, i composti di fluoro, che contribuiscono per il 18% all’effetto serra. «Essi sono oggetto del Protocollo di Montreal – ha spiegato Alessandro Lanza, del Centro Euromediterraneo sui Cambiamenti Climatici ed ex dell’IPCC – e parallelamente alle azioni sulla riduzione di CO2 si potrebbe agire su di essi». Il clima, promette, ne beneficerebbe parecchio.
2. Agire con maggior decisione sul fronte della riforestazione, dell’agricoltura e dello spreco alimentare. Secondo Riccardo Valentini, membro del Consiglio strategico del Centro Euromediterraneo e collaboratore IPCC, si potrebbero sviluppare infrastrutture verdi, soprattutto in ambito urbano, in grado di sequestrare carbonio e compensare una parte delle emissioni. Inoltre, sarebbe possibile dimezzare lo spreco alimentare, che farebbe risparmiare 250 milioni di tonnellate di CO2 soltanto in UE».
3. Rendere più efficace l’accordo in preparazione per Parigi sul piano giuridico. Francesca Romanin Jacur, professoressa di International Environmental Law all’Università degli studi di Milano, propone di «indicare sia l’obiettivo a lungo termine, quello dei 2 °C, sia target intermedi. Sarà fondamentale, inoltre, il loro riesame periodico e automatico, una condivisione delle regole di contabilizzazione», in modo da avere strumenti standard per valutare i progressi.
Tutti i rischi della COP 21
Parigi è l’ultima spiaggia per un accordo che proietti la politica climatica globale oltre il 2020. Ma la strada è in salita, date le molte “teste” da mettere d’accordo. Cina e India sono restie ad impegnarsi oltre misura, sacrificando la crescita economica al benessere del pianeta. Gli Stati Uniti giocano a rimpiattino, propagandando obiettivi “coraggiosi” ma di breve periodo, l’Europa si vanta di una proposta climatica “ambiziosa” che – rispetto a quel che si poteva fare – è un mezzo passo indietro. In tutto ciò, il Fondo per il clima (Green Climate Fund) piange, e i Paesi più poveri rischiano la colonizzazione economica invece di veri aiuti per difendersi dagli eventi estremi. Quel che serve, è un salto di paradigma sempre propagandato e mai nemmeno abbozzato. La presidente della Camera, Laura Boldrini, ha provato a sintetizzarlo utilizzando la frase del capo indiano Seattle, con cui ha aperto l’incontro: «Non ereditiamo il mondo dai nostri padri, lo prendiamo in prestito dai nostri figli». Un invito a valutare le nostre azioni in funzione delle loro ricadute su chi verrà dopo di noi.
«La scarsità delle risorse porta ad un aumento di conflitti, che ingrossano i flussi migratori – ha spiegato poi Boldrini – Sono tutti aspetti di un fenomeno, quello dei cambiamenti climatici, che va affrontato con politiche ambientali forti. Non dobbiamo più considerarle come vincolo, ma come opportunità. La Germania ha l’obiettivo di un 37% di energie rinnovabili al 2020, e di un 100% al 2040. Questa è la strada da seguire».
Carlo Carraro, professore alla Ca’ Foscari di Venezia e vice presidente del Working Group III dell’IPCC: «Sono ottimista sull’accordo di Parigi perché c’è già un consenso politico sulla necessità di ridurre le emissioni. Perciò il patto ci sarà, e sarà coerente con l’obiettivo dei 2 °C. Ma non basta, questo è solo il primo passo: oltre ai propositi è necessario assumere impegni concreti. Ci riusciremo?».
Dubitare è d’obbligo: infatti, dopo 20 summit climatici le emissioni sono regolarmente cresciute, nonostante i grandi discorsi. Dal primo vertice, nel ’92, ad oggi, sono salite del ’61%, mentre dal 1970 sono più che raddoppiate.
«Entro il 2070-2080 dobbiamo azzerare l’utilizzo di combustibili fossili – ha spiegato Carraro – Un periodo abbastanza lontano. Ma sono scelte che vanno fatte oggi, per programmare la transizione».
Il punto di partenza dev’essere un’azione coordinata a livello internazionale, l’allocazione di risorse economiche sufficienti sulla mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti del clima, la capacità di collaborare con i Paesi in via di sviluppo. L’andazzo seguito fino ad oggi non è una buona premessa. Secondo Francesco Rutelli, presidente della fondazione Futuro Sostenibile, «i sette governi che al 31 marzo hanno dichiarato i propri obiettivi, hanno utilizzato parametri diversi. Non possiamo permetterci un carnevale di decisioni climatiche».
Per fare qualche esempio: l’Europa ha dichiarato di voler diminuire le emissioni del 40% rispetto ai livelli del 1990, gli USA del 26% rispetto al 2005, la Cina non ha dato numeri precisi ma solo indicazioni di massima.
Cambiare il modello di sviluppo
Il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, sostiene che siamo comunque sulla buona strada, e «la COP 20 di Lima è da considerare un successo, non una sconfitta. L’importante è che a Parigi si gettino le basi per un cambio di modello di produzione che oggi non è più sostenibile. Nel XX secolo ha permesso di ridurre la povertà, ma oggi l’obiettivo è un altro: salvare il pianeta».
Le strade da imboccare sono molte: una di queste riguarda il ripensamento dell’agricoltura. Lo ha spiegato Josè Graziano Da Silva, direttore generale della FAO: «Il settore è responsabile del 25% delle emissioni globali – ha detto Da Silva – Questo significa che è parte del problema. Ma anche della soluzione, dato che si tratta dell’unico comparto economico in grado di sequestrare carbonio con la sua espansione. L’agroecologia, ad esempio, è un sistema che permette di aumentare la produzione senza impattare sulla terra, anzi recuperando suoli degradati. Inoltre, dobbiamo ridurre l’uso di fertilizzanti, sostituendoli con alternative naturali».
Gli scarti agricoli, così come quelli alimentari, possono inoltre vivere una seconda vita, come ha aggiunto Catia Bastioli, ad di Novamont: «pensare all’interconnessione tra settori, alla circolarità del processo. La bioeconomia intesa come rigenerazione territoriale può dare benefici dal punto di vista climatico, ma anche economico e sociale. In particolare la chimica verde, che si traduce in bioraffinerie integrate nel territorio, diventando anche volano di ricerca e innovazione».