In America Latina la maggior parte dei delitti ambientali
(Rinnovabili.it) – Quasi quattro morti a settimana. È un massacro senza fine quello degli attivisti ambientalisti che in tutto il mondo difendono la terra e gli ecosistemi dalle mire di forti interessi privati. Il nuovo rapporto della ONG Global Witness sui delitti ambientali ha censito 197 vittime nel 2017, quattro volte il numero che compariva nel suo primo rapporto del 2002.
«La situazione rimane critica – ha detto Ben Leather, campaigner della ONG – Fino a quando le comunità non saranno davvero coinvolte nelle decisioni sull’uso della loro terra e delle risorse naturali, coloro che si opporranno continueranno a subire vessazioni, incarcerazioni e minacce di omicidio».
Tuttavia, la piccola buona notizia è che, dopo quattro anni di aumento degli omicidi, il numero di morti sia lievemente diminuito: forse merito di una crescente consapevolezza globale dei governi e delle imprese. La maggior parte dei crimini è perpetrata in remote aree dei paesi in via di sviluppo, soprattutto in America Latina. Ma difendere la terra è rischioso anche in India, dove quattro persone sono state uccise per aver cercato di impedire l’estrazione di sabbia dalla riva del fiume dove sorge il loro villaggio di Jatpura, nello stato di Uttar Pradesh. In Turchia, una coppia di pensionati è stata freddata a colpi di arma da fuoco nella propria casa dopo aver vinto una battaglia legale per chiudere una cava di marmo che riforniva hotel di lusso. La fame di minerali, che ha causato 36 vittime lo scorso anno, ha trasformato le Ande in una zona di guerra tra indigeni e imprese.
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Resta comunque l’agrobusiness il principale driver di violenza, con la crescente domanda di soia, olio di palma, canna da zucchero e carne che spinge imprenditori agricoli e allevatori a cercare terre sempre più in profondità nel territorio indigeno e sulle terre pubbliche. Il Brasile, non per nulla, è il primo paese per omicidi a sfondo ambientale nel 2017, con 46 vittime. In Colombia sono morte invece 32 persone, mentre il Perù è menzionato per il peggior massacro dell’anno, con sei contadini uccisi da una banda criminale che puntava alle loro terre per rivenderle alle imprese dell’olio di palma. Crescono i delitti anche in Messico ed esplodono nelle Filipppine (41 vittime). In Africa, la più grande minaccia viene come sempre dai bracconieri e dal commercio illegale di specie selvatiche. Nella Repubblica Democratica del Congo, quattro ranger e un facchino sono stati assassinati in un’imboscata lo scorso luglio.
Molti altri omicidi, oltre a quelli riportati nel dossier di Global Witness, non vengano denunciati. Forse perché avere giustizia è ancora un miraggio: gli assassini sono spesso assunti da uomini d’affari o politici e rimangono impuniti. La polizia spesso è collusa con il potere.
Se non altro, in alcuni paesi che negli scorsi anni sono stati nell’occhio del ciclone, il numero di morti è sceso. Ad esempio in Honduras e Nicaragua, dove comunque gli attivisti rimangono molto vulnerabili. Alcune istituzioni internazionali hanno prestato orecchio all’indignazione globale: a seguito delle critiche per aver sostenuto il progetto idroelettrico in Honduras legato all’omicidio di Berta Cáceres, la Dutch Development Bank (FMO) ha dichiarato che la sicurezza dei difensori dei diritti umani sarà un fattore chiave nelle sue future decisioni di investimento.