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Se i rifiuti Hi-tech restano chiusi in casa

di Paolo Serra – Associazione RELOADER onlus

 

 

La legge italiana per la gestione dei RAEE (Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche), che recepisce la Direttiva Europea, ha l’obiettivo di consentire al trattamento dei RAEE di recuperare in misura sempre maggiore le materie prime secondarie, in modo che siano immesse nel ciclo produttivo, riducendo o addirittura annullando, la necessità, esiziale per il nostro sistema economico, d’importazione da paesi terzi. Il livello minimo di recupero dei RAEE per il 2016, fissato dall’Europa e accettato dall’Italia, è di 7,5 kg pro capite.

 

Tuttavia, lo scenario italiano del settore presenta una situazione che ha del paradossale.

Da una parte le aziende, gli enti e le unità locali in generale, come pure i privati cittadini, detengono i RAEE all’interno dei propri locali. Si tratta di una miniera a cielo aperto di materie prime secondarie, quali oro, argento, rame e altri elementi, le così dette “terre rare”, alcuni dei quali raggiungono valori pari ad un terzo di quello dell’oro (p. es. lo Scandio: 15 Euro/grammo). Disfarsi di tali rifiuti costa tempo e denaro, per cui in genere lo si fa solo quando non se ne può più fare a meno, così per la maggior parte essi restano fermi, improduttivi, ingombranti e spesso a rischio d’inquinamento.

 

Dall’altra parte le aziende di trattamento non riescono a trovare sufficienti quantitativi atti a raggiungere il pieno utilizzo dei loro impianti e non realizzano perciò quell’economia di scala che consentirebbe loro di aumentare il valore aggiunto in modo tale da poter remunerare il conferimento dei rifiuti, creando così quella prospettiva di guadagno che invoglierebbe le aziende, ed anche i privati, ad attivarsi.

Un discorso a parte meritano gli esercizi commerciali che vendono AEE (Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche): ad essi il legislatore ha assegnato la funzione di ritirare dal consumatore gli apparecchi fuori uso, accollandosene lo smaltimento a norma di legge. E quale “compenso” per tale attività onerosa gli ha prescritto, pena un’ammenda di 2.600,00 Euro, di autodenunciarsi come “inquinatore potenziale” all’Albo Gestori Ambientali, sborsando circa 400,00 euro, oltre a un contributo annuale di 50,00 Euro. Nell’Albo del Lazio, di circa 15.000 esercizi commerciali che vi sono tenuti, ad oggi ne risultano iscritti solo il 3%, circa 400.

 

In sintesi: le aziende e i privati non immettono in circolo i RAEE perché non hanno alcun incentivo a farlo, molti negozianti, per non apparire, preferiscono utilizzare canali “paralleli”, le industrie di trattamento non riescono ad avere sufficiente “materia prima” per realizzare margini soddisfacenti.

Il risultato è che il costo del recupero, oltre ad essere troppo elevato, è sopportato in parte dai pochi che sono rispettosi delle leggi, ma soprattutto dal sistema economico italiano, che deve accollarsi l’onere dell’importazione di materie prime che, pur presenti sul territorio, il sistema non riesce a rendere disponibili.

 

La situazione descritta è aggravata dal fatto che la scarsa massa critica di RAEE da trattare, dispersa in moltissimi punti d’origine, comporta alti costi di trasporto, dovuti all’estrema parcellizzazione dei ritiri.

Il risultato è che nel 2015 in Italia solo il 23% dei RAEE è stato recuperato (4 Kg. sui 17,6 pro capite generati), per cui è molto probabile che l’Italia sia oggetto di una procedura d’infrazione il prossimo anno.

 

di Paolo Serra – Associazione RELOADER onlus