(Rinnovabili.it) – Ora che sulla COP 21 è calato il sipario e il bagno di folla dei leader globali è nell’album dei ricordi, l’Unione europea può tornare agli affari più pressanti. E cioè al commercio di petrolio da sabbie bituminose, il combustibile più sporco del pianeta. Una recente ricerca di MathPro, una società di consulenza specializzata nel settore della raffinazione, indica che 71 delle 95 raffinerie in Unione europea, Norvegia e Svizzera sono ora in grado di gestire il petrolio greggio pesante o pretrattato da sabbie bituminose. Questo significa una cosa sola: ci stiamo preparando a importare. L’Italia non è estranea a tutto questo: secondo la mappa prodotta dalle ONG Transport & Environment e Friends of the Earth, nel nostro Paese sarebbero ben 7 le raffinerie che hanno aggiornato i loro impianti: quattro in Sicilia e uno in Piemonte, Lombardia e Sardegna.
Gli impatti delle sabbie bituminose
Le oil sands (o tar sands) sono un mix di argilla, sabbia, acqua e bitume da cui si estrae (con tecniche ad altissimo impatto ambientale) una sostanza vischiosa molto simile al petrolio, che può poi essere convertita in greggio e successivamente raffinata per ricavarne dei derivati. I due terzi delle riserve mondiali di petrolio da bitume sono concentrati in due luoghi del pianeta: la provincia canadese dell’Alberta e il Venezuela. In particolare, secondo il World Energy Council, in Canada risiede il 70.8% delle riserve, pari a 1.7 terabarili. Le risorse, cioè la quota delle riserve recuperabile con le attuali tecnologie, si aggira intorno al 10% del totale.
Già oggi alcune società statunitensi raffinano ed esportano in Europa petrolio da sabbie bituminose, miscelato con quello convenzionale. Tuttavia, questo combustibile richiede un maggior apporto di acqua ed energia rispetto agli idrocarburi convenzionali. Si impiegano circa tre barili d’acqua per estrarre un barile di petrolio da sabbie bituminose. Vi è poi la questione climatica: secondo uno studio del Congressional Research Service del 2014, le emissioni delle oil sands possono superare quelle del petrolio anche del 20%. Una ricerca della Stanford University commissionata dall’Unione europea nel 2011, valutava tale quota al 22%.
«Le imprese europee sono in grado di trattare questo petrolio estremamente pericoloso per l’ambiente e l’Ue non fa nulla per impedire le importazioni di sabbie bituminose», ha detto Laura Buffet, responsabile delle politiche per i combustibili presso Transport & Environment. Un rapporto del National Resources Defence Council (NRDC), datato 2014, sostiene che senza un intervento restrittivo da parte dell’Unione, le importazioni potrebbero passare da 4 mila a 700 mila barili al giorno entro il 2020. Sarebbe come mettere su strada 6 milioni di nuove automobili.
Gli “affari sporchi” dell’Europa
Il primo grosso carico di petrolio di sabbie bituminose canadesi è arrivato nel giugno 2014 a Bilbao. L’ha organizzato la Repsol, che nella città spagnola ha una raffineria idonea al trattamento.
Questi idrocarburi viscosi non possono essere trasportati o raffinati senza prima essere trasformati o diluiti con idrocarburi leggeri. I petroli derivati che finiscono sul mercato includono:
– Syntetic Crude Oil (SCO): greggio leggero, a basso tenore di zolfo, senza residuo vacuum (la frazione più pesante del greggio);
– Dilbit: (bitume diluito): greggio pesante, ad alto livello di zolfo e contenente una grossa frazione di residuo vacuum. È prodotto diluendo il bitume con idrocarburi leggeri per consentire il trasporto. Il Dilbit è destinato a coprire la più grossa fetta di nuove importazioni europee di greggio non convenzionale. Rappresenta dunque il principale rischio per gli obiettivi climatici dell’Ue.
– Synbit (SCO-diluted bitumen): un misto di SCO e Dilbit;
– Western Canadian Select (WCS): un tipo di Dilbit ad alto tenore di zolfo.
Per trattare SCO, Dilbit e WCS sono necessarie particolari modifiche alle raffinerie europee, che devono dotarsi di unità in grado di processare questi idrocarburi in quantità.
Il rapporto analizza solo le importazioni di petrolio greggio destinato alla raffinazione in Europa, ma il vecchio continente importa anche prodotti petroliferi raffinati in Nord America. Il contenuto di questi prodotti è sconosciuto agli enti regolatori dell’Unione europea da quando un emendamento alla Direttiva sulla qualità dei carburanti (Fqd) ha reso impossibile l’etichettatura dettagliata degli idrocarburi importati. La direttiva serve rispondere all’esigenza di ridurre del 6% entro il 2020 (rispetto ai livelli 2010) l’intensità di carbonio dei carburanti da trasporto. Nella sua prima proposta, il testo prevedeva metodi per scoraggiare l’importazione di carburanti ad alta intensità carbonica. Tuttavia, dietro pressione delle lobby, la Commissione europea ha rivisto l’articolo 7bis, eliminando l’obbligo di riportare in etichetta la materia prima da cui è stato ricavato il petrolio.
Gli accordi di libero scambio che l’Unione europea ha siglato con il Canada (CETA) e sta negoziando con gli USA (TTIP) sono destinati ad incidere sulle importazioni di idrocarburi non convenzionali. Pertanto, spiegano le ONG, rappresentano una minaccia diretta agli obiettivi climatici che il blocco si è dato e che il testo uscito dalla COP 21 ha confermato.