(Rinnovabili.it) – Si chiama RSPO Next il pacchetto di standard che la Tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile ha lanciato ieri, con lo scopo di evitare la deforestazione, la violazione dei diritti umani e ridurre le emissioni di gas serra del settore.
Costituitasi nel 2004, la piattaforma RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil) riunisce 2.500 aziende, dai produttori ai commercianti, dai rivenditori agli investitori, in un tentativo – finora fallito – di rendere meno impattante la produzione. I nuovi standard, tuttavia, sembrano mancare in partenza l’obiettivo. L’adesione è infatti su base volontaria: chi non ha intenzione di sobbarcarsi un aumento dei costi potrà continuare business as usual. Questo perché RSPO ritiene impossibile, per tutti i suoi aderenti (che valgono il 20% della produzione globale), impegnarsi obbligatoriamente nelle seguenti direzioni:
– evitare di piantare filari di palme sulle torbiere o altri terreni ricchi di carbonio, che svolgono un ruolo chiave nella mitigazione dei cambiamenti climatici
– attuare politiche di prevenzione degli incendi
– ridurre le emissioni di gas serra
– pagare gli operai un salario di sussistenza
– impegnarsi nella deforestazione zero
Perché non esiste un olio di palma sostenibile
Se il rispetto di tali parametri non era – e non è tutt’ora – necessario per ottenere la prima certificazione RSPO, significa che le aziende che violano i diritti umani e provocano disastri ambientali possono comunque avere il bollino di sostenibilità. Del resto, il fallimento della piattaforma è stato messo nero su bianco da un rapporto di novembre della Environmental Investigation Agency (EIA). Nel documento si legge che i certificatori hanno spesso condotto valutazioni scadenti e incomplete, volte a truccare i documenti e assicurare ai criminali il greenwashing che andavano cercando.
Le conseguenze delle frodi ricadono sulla distruzione delle foreste e della biodiversità, alimentano conflitti sociali, il traffico di esseri umani e minacce di morte per gli attivisti.
L’ingrediente jolly che devasta l’ambiente
L’olio di palma è l’olio vegetale più utilizzato al mondo: lo troviamo, secondo il WWF, nel 50% dei prodotti del supermercato, dallo shampoo alla Nutella. Grazie a questo ingrediente jolly, le multinazionali riescono ad abbattere i costi. Tuttavia, questi vengono molto spesso scaricati sull’ambiente e gli animali (ha fatto scalpore il calo spaventoso delle popolazioni di orango), nonché sul mercato del lavoro. Per l’olio di palma, l’anno scorso, in Indonesia sono stati dati alle fiamme decine di migliaia di ettari di foresta. Serviva fare (letteralmente) terra bruciata, per rimpiazzare con palme da olio gli alberi che danno ricovero a innumerevoli forme di vita. A seguito di questo disastro ambientale, si è levata in aria una coltre di fumo visibile dal satellite, che ha infettato le vie respiratorie di mezzo milione di persone e costretto scuole e aeroporti alla chiusura perfino in Malesia e Singapore. Le emissioni giornaliere provocate dai roghi hanno superato le emissioni medie quotidiane degli Stati Uniti.
In Africa, nel frattempo, i governi stanno distribuendo vaste aree di terra alle società, strappandole alle famiglie che vivono e lavorano su di esse. Con la trasformazione dei terreni agricoli in aree destinate a monocoltura della palma da olio, queste zone stanno perdendo la capacità di produrre il cibo. Le piantagioni stanno portando a una deforestazione su larga scala, e impattano sulle riserve d’acqua. La palma da olio ne ha bisogno, e quando si incontrano aree ben fornite, ricche di biodiversità e fonti di sostentamento per le comunità locali, è necessario drenarle. Le risorse idriche, inoltre, vengono contaminate dai pesticidi utilizzati nelle piantagioni.