(Rinnovabili.it) – Tutti parlano delle emissioni di CO2, pochi si preoccupano delle emissioni di metano. Eppure questo gas ha un effetto sul riscaldamento globale 86 volte superiore al diossido di carbonio nei primi 20 anni dalla diffusione in atmosfera. L’esplosione del fracking negli Stati Uniti ha aumentato esponenzialmente le fuoriuscite di gas naturale, ma decine di allarmi sono stati ignorati dalla politica, che continua a considerare il LNG una fonte più pulita del petrolio e del carbone, un combustibile “ponte” fra l’epoca fossile e quella delle rinnovabili.
Niente di più falso, secondo un nuovo studio dell’Università di Harvard. Il prestigioso istituto ha rilevato un picco spaventoso delle emissioni di metano tra il 2002 e il 2014. E il grande colpevole sembra essere proprio il Paese dove il fracking è sdoganato: gli Stati Uniti. La ricerca rivela infatti che da qui proverrebbe circa il 30% delle emissioni di CH4 degli ultimi dodici anni.
Solo ultimamente l’inquinamento da gas naturale è divenuto un caso nazionale negli USA: è successo quando è la città di Los Angeles ha dichiarato lo stato di emergenza a causa del disastro ambientale occorso all’Aliso Canyon, zona a nord della città in cui un pozzo di stoccaggio del gas ha subìto perdite immani. La fuga di metano è proseguita ininterrotta da ottobre a qualche giorno fa, quando finalmente – dopo una decina di tentativi andati a vuoto – gli esperti sono riusciti a tappare la falla. In questi mesi, il serbatoio ha vomitato abbastanza metano nell’atmosfera di eguagliare i gas serra emessi da più di 440 mila vetture in un anno.
Negli Stati Uniti, i calcoli relativi al periodo 2002-2012 quantificano in circa 29 milioni di tonnellate all’anno le emissioni antropiche di gas, con un trend sostanzialmente stabile. La ricerca dal team di Harvard, tuttavia, smentisce i dati delle autorità pubbliche. Lo studio, infatti, che utilizza dati satellitari, dimostra che le emissioni variano dai 39 ai 52 milioni di tonnellate durante lo stesso periodo. Quindi non sono solo molto più alte, ma anche in crescita. E di certo non rassicura l’affermazione degli esperti, secondo cui le stime governative sulle emissioni di metano non sono coerenti con le osservazioni fatte da università e altre istituzioni.
Invece di calcolare le perdite reali, infatti, l’Autorità ambientale statunitense (EPA) usa un metodo che misura le perdite attese completamente inadatto.
Robert Howarth, uno degli scienziati del team radunato da Harvard per produrre queste analisi, non ha dubbi: dal momento che gli Stati Uniti sono responsabili per ben il 60% della crescita globale delle emissioni di metano, è fondamentale che il Paese riduca il consumo di gas naturale il più rapidamente possibile. Se non ci riuscirà, potrebbe mettere a repentaglio gli impegni assunti nell’ambito della COP 21.
«Non vi è alcun modo per rispettarli riducendo solo le emissioni di anidride carbonica – ha detto Howarth – Anche con le massime riduzioni avviate a partire da ora, il pianeta raggiungerebbe +1.5 °C in 12 anni e +2°C in 35 anni». Il sistema climatico reagisce invece molto più velocemente al mutamento delle concentrazioni di CH4, «quindi una riduzione immediata delle emissioni di metano rallenterebbe il tasso di riscaldamento globale da subito».