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Referendum sulle trivellazioni, facciamo chiarezza

 

Referendum sulle trivellazioni, facciamo chiarezza

 

Il contributo delle attività entro le dodici miglia, pari al 3% dei nostri consumi di gas e meno dell’1% di petrolio, risultano alquanto inutili ai nostri fini energetici. Un contributo che è abbondantemente compensato dal calo dei consumi in atto da diversi anni (- 22% di gas anche se con una leggera risalita nel 2015 e -33% di petrolio negli ultimi 10 anni) e che nel futuro potrà essere ridotto in termini ancora maggiori grazie alla sostituzione con il biometano e agli interventi di efficienza energetica che, ricordiamolo, sono già previsti dalle Direttive europee.

 

Il referendum è inutile?

Il referendum serve a cancellare l’ennesimo regalo fatto alle compagnie petrolifere con l’approvazione della Legge di Stabilità 2016, che  permette loro di estrarre petrolio e gas entro le dodici miglia nei nostri mari, senza alcun limite di tempo. Con la vittoria del SI si ripristina quanto prevedeva la norma per ogni altra concessione di ricerca ed estrazione, ovvero una scadenza temporale (6 e 30 anni a seconda delle concessioni). Il referendum del 17 aprile è stato ritenuto necessario dalle Corti di Cassazione e Costituzionale per entrare nel merito della durata delle concessioni entro le dodici miglia. Nessuna concessione di un bene dello stato infatti, può essere affidata a un privato senza limiti di tempo, fino a che convenga a quest’ultimo.

 

Il referendum è ideologico?

Il movimento referendario ha già costretto il Governo a importanti passi indietro nella sua politica pro trivelle. Il percorso referendario si è già contraddistinto per aver portato a casa risultati concreti molto importanti. In particolare con la legge di Stabilità 2016 il Governo è stato costretto a fare dietrofront su tre aspetti molto rilevanti: le attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio nel nostro Paese non sono più strategiche (lo erano diventate con l’approvazione dello Sblocca Italia a fine 2014); ha ridato voce ai territori, riportando le decisioni per le attività a terra in capo alle Regioni e agli enti locali (sempre lo Sblocca Italia aveva avocato tutte le decisioni allo Stato centrale) e infine ha reso operativo il divieto al rilascio di nuovi titoli abilitativi entro le dodici miglia nel mare italiano. Un divieto previsto già dal Dlgs 128/2010 ma che i Governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno sempre provveduto a smontare.

 

Il referendum è inutile perché non ci saranno più nuove trivelle entro le dodici miglia

Attualmente, la legge non consente che entro le 12 miglia marine siano rilasciate nuove concessioni, ma non impedisce, invece, che nell’ambito delle concessioni già rilasciate, dove il programma di sfruttamento lo preveda, siano installate nuove piattaforme e perforati nuovi pozzi, come nel caso della  piattaforma VegaB nel canale di Sicilia. Se vince il Si il titolo andrà a scadenza nel 2022 e la piattaforma sarà fermata, se vince il No molto probabilmente sarà realizzato anche questo secondo impianto nell’ambito della concessione esistente. La stessa situazione vale per la concessione Rospo mare di fronte le coste abruzzesi, dove nel programma di sfruttamento sono previsti nuovi pozzi. Nel caso vinca il Sì verrebbe ripristinata la scadenza del marzo 2018 e quindi non ci sarebbero ulteriori ampliamenti. Rimane infine in sospeso il caso di Ombrina mare, il progetto di una nuova piattaforma petrolifera a sole 3 miglia dalla costa che in questo momento è tenuto in sospeso fino a fine 2016. Inoltre è bene ricordare che con l’attuale formulazione della norma sono fatti salvi sine die anche alcuni titoli di ricerca che un domani potrebbero trasformarsi in nuove attività (questa ad esempio è una delle contraddizioni della durata illimitata dei titoli abilitativi già rilasciati).

 

Se l’Italia non trivella, trivellerà qualcun altro, ad esempio la Croazia?

In Adriatico l’Italia è l’unico paese ad avere decine di  concessioni e piattaforme in mare anche a ridosso della costa. La Croazia, l’altro Paese ad avere piattaforme installate nel mar Adriatico, ha solo 19 piattaforme per l’estrazione di gas localizzate al centro dell’Adriatico, a ridosso del confine delle acque di sua competenza. Inoltre il Governo croato ha di recente firmato una moratoria contro le nuove trivellazioni. La moratoria segue di qualche mese la rinuncia da parte di due compagnie petrolifere a proseguire le attività di ricerca di giacimenti in acque croate su 7 delle 10 aree che il Governo aveva dato in concessione. Non è l’unica rinuncia, visto che qualche settimana fa la Petroceltic ha fatto dietrofront rispetto a un permesso di ricerca a largo delle isole Tremiti e la Shell per le sue attività nello Ionio. In conclusione, sono le stesse compagnie petrolifere a non ritenere conveniente puntare su nuove attività estrattive nel mare italiano.

 

Se vince il Sì, si perderanno molti posti di lavoro?

Nessun posto di lavoro è a rischio per colpa del referendum. A mettere in pericolo quei posti di lavoro, semmai, sono la crisi del settore, la riduzione dei consumi nazionali di gas (-21,6%) e petrolio ( -33%) e la mancanza di una seria politica energetica nazionale. Inoltre se vince il Sì, le piattaforme non chiuderanno il 18 aprile ma saranno ripristinate le scadenze delle concessioni rilasciate, esattamente come previsto prima della Legge di Stabilità 2016. Si ripristinerà quindi la durata della concessione sottoscritte da Governo e compagnie petrolifere. Inoltre, lo smantellamento delle piattaforme potrà creare nuova occupazione.

 

Assomineraria parla di 13mila occupati nel settore estrattivo in tutta Italia (tra attività a terra e a mare, dentro e fuori le dodici miglia) e 5mila posti di lavoro a rischio con il referendum. Il ministro Galletti fa riferimento alla cifra di 10mila posti di lavoro in meno e  la Filctem Cgili sostiene che i lavoratori che rimarrebbero a casa sono 10 mila solo a Ravenna e in Sicilia. Le stime ufficiali riguardanti l’intero settore di estrazione di petrolio e gas in Italia (fonte Isfol – Ente pubblico di ricerca sui temi della formazione, delle politiche sociali e del lavoro) parlano invece di 9mila impiegati in tutta Italia e di un settore già in crisi da tempo. Elemento quest’ultimo molto importante. A dimostrarlo i rapporti del settore degli ultimi anni a livello nazionale e internazionale o il tavolo di crisi aperto presso la regione Emilia Romagna, già prima dell’istituzione del referendum . Ad esempio secondo l’ultimo rapporto della società di consulenza Deloitte, il 35% delle compagnie petrolifere a causa del crollo del prezzo del petrolio è ad alto rischio di fallimento nel 2016, con un debito accumulato complessivamente di 150 miliardi di dollari. Al contrario, il settore delle rinnovabili e dell’efficienza sono in forte crescita e con norme e politiche adeguate potrebbero generare almeno 600mila posti di lavoro: 100mila al 2030 nel solo settore delle energie rinnovabili – circa il triplo di quanto occupa oggi Fiat Auto in Italia – mentre, al contrario, nel 2015 se ne sono persi circa 4 mila nel solo settore dell’eolico e 10mila in tutto il settore.

 

Se vince il Sì, il nostro paese aumenterà l’importazione di petrolio e gas e il traffico marittimo?

Difficilmente chiudendo queste attività, che comunque arriverebbero al termine previsto dalla concessione come prevedeva la normativa fino a fine 2015, ci sarà un incremento di traffico di navi per il trasporto di idrocarburi. Il totale del petrolio oggi estratto da queste piattaforme corrisponde al carico di tre navi petroliere in un anno. Il gas viene trasportato (importato o esportato) prevalentemente attraverso i tubi dei gasdotti e non via mare. Infine già oggi il petrolio estratto dalle piattaforme (presenti prevalentemente entro le dodici miglia marine) viene trasportato a terra tramite oleodotti e da qui, il più delle volte, caricato sulle petroliere per essere trasportato agli impianti di raffinazione e trattamento. Tutto questo traffico sarebbe, al contrario, eliminato grazie al Sì al referendum.

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