Dal 1997 al 2012 le buone pratiche nel settore degli imballaggi hanno evitato la costruzione di almeno 100 discariche e l’emissione di 125 milioni di tonnellate di CO2
È considerata la prima analisi che mappa tutta la filiera del riciclo, insieme alle ricadute occupazionali e sociali. Il rapporto di sostenibilità del Conai (Consorzio Nazionale Imballaggi) è stato presentato stamattina a Roma, dal presidente Roberto De Santis e da Edo Ronchi, numero uno della Fondazione per lo sviluppo sostenibile. All’incontro hanno partecipato anche esponenti delle istituzioni politiche e di Confindustria.
Secondo il dossier, dal 1997 al 2012 le buone pratiche nel settore degli imballaggi hanno evitato la costruzione di almeno 100 discariche, il consumo di 350 miliardi di kWh e l’emissione di 125 milioni di tonnellate di CO2. In questi 15 anni, la quota di imballaggi finiti in discarica si è drasticamente ridotta, passando dai due terzi dei rifiuti totali a circa il 25%. In parallelo, quella recuperata è salita dal 33% al 76%. Il dato 2012 racconta che sono state 8,6 milioni le tonnellate di rifiuti da imballaggio avviate a recupero. Di queste, 7,5 milioni sono state reimmesse nel ciclo produttivo. Si prevede che il tasso medio di crescita annua per il riciclo di questi scarti si attesterà sull’1,5% da qui al 2015. Non solo. Una ricerca commissionata alla società Althesys, sostiene che ogni euro investito nel sistema Conai ne ha prodotti 3 di ricavo: a fronte di 4 miliardi di euro di contributi versati dalle aziende consorziate, si sarebbero prodotti 15 miliardi di benefici. Cifre che Edo Ronchi sottolinea rivolgendosi ai decisori pubblici.
«Volevamo rendere più concreto l’impatto del Conai sulla green economy. Il reporting per la sostenibilità è già uno standard per molte imprese internazionali, e la Ue si appresta a varare una direttiva che renderà obbligatoria la rendicontazione non finanziaria».
Un passo importante, secondo l’ex ministro, convinto che la green economy cambi il modo di vedere l’impresa: «l’ambiente non è più solo un vincolo, ma un’opportunità se si considerano nelle analisi parametri come la qualità del benessere, l’innovazione e gli impatti sociali e occupazionali positivi». Mettere questo patrimonio di informazioni a disposizione della politica può diventare vettore di promozione dell’economia verde. Se si evidenziano i risultati dei processi virtuosi è più facile che i decisori ne vengano a conoscenza e, finalmente, orientino le loro energie nella direzione di una loro espansione.
Per dare un quadro esaustivo di questi processi, tuttavia, sono necessari studi in grado di fotografare le filiere con il grandangolo, non limitandosi ad analisi di settore poco attente alle ricadute sociali della green economy. È per questo che Conai e Fondazione per lo sviluppo sostenibile vanno fieri della nuova metodologia proposta e brevettata dal think tank di Ronchi. Ne ha dato conto Elisabetta Bottazzoli, funzionaria del consorzio e curatrice del rapporto sulla sostenibilità: «Era importante dare corpo ai soggetti della filiera, così come agli effetti del riciclo sulla società e l’occupazione. Abbiamo fatto da cavia per la Fondazione, che ha messo a punto e una metodologia innovativa. C’è stata, come vuole lo standard internazionale, una partecipazione di tutti gli stakeholder, dell’Anci, del Consiglio nazionale della green economy, dei consorzi di filiera, dipendenti e fornitori».
Poi però si è andati oltre, rendicontando le performance a livello di organizzazione (impatto delle attività, degli uffici e dei dipendenti Conai), a livello di Sistema (cioè le attività connesse al sistema dei consorzi COMIECO, CIAL, COREPLA, Coreve, Rilegno, Ricrea) e infine a livello di industria del riciclo (ossia gli attori impegnati nel settore del riciclo imballaggi). Sviluppare una visione di insieme del ciclo di vita di un prodotto, secondo i relatori, costituisce un’iniezione di liquido di contrasto nel magma di aziende “green” e aziende “brown”, in grado di far risaltare con maggior nettezza la differenza fra i due approcci. In quest’ottica, qualità del benessere e riduzione del consumo di capitale naturale sono parametri cardine: impossibile escluderli da una valutazione economica seria.
«La green economy – conferma Ronchi – è una filiera complessa che coinvolge diversi piani e livelli, bisogna giocoforza tenere conto di aspetti di contesto che in realtà sono direttamente connessi con i processi produttivi».
Anche Confindustria, per bocca di Massimo Beccarello, vicedirettore Politiche per lo sviluppo, Energia e Ambiente, ha espresso un parere positivo sul rapporto, dimostrando che esiste una dialettica interna alla confederazione fra “progressisti” e “conservatori”. A tenerli insieme è, come sempre, il filo rosso di crescita, competitività e abbattimento della burocrazia.
«Una economia di trasformazione e manifatturiera come la nostra – spiega Beccarello – necessita di processi ambientalmente compatibili. La green economy è una evoluzione tecnologica della brown economy. Si tratta di settori in stretta sinergia, e per la prima volta un rapporto lo mette in evidenza. Dobbiamo pensare all’attività di recupero come elemento fondamentale per la competitività delle imprese. La politica deve interessarsene e assecondare il processo: per essere un volano di sviluppo, infatti, l’economia circolare dev’essere facilitata da una normativa più snella».
La risposta delle istituzioni è inevitabilmente un mix di autocritica, promesse e auspici. Aldo Di Biagio, vicepresidente della Commissione Ambiente del Senato e Barbara Degani, sottosegretario al ministero dell’Ambiente, hanno posto l’accento sulle ricadute culturali del rapporto Conai. Il primo ha rilevato «un problema culturale della politica, che non riconosce le potenzialità economiche del sistema», mentre la seconda si è concentrata sul cambio di paradigma nell’approccio al tema dei rifiuti: «Dobbiamo cominciare a considerare gli scarti una risorsa, anziché un peso».
Una visione che la politica dovrebbe fare propria, sostengono gli estensori del dossier, anche per intervenire in una situazione che nel Sud Italia si è fatta pesante. Se la raccolta differenziata fra il 2007-2012 è cresciuta costantemente, infatti, le regioni meridionali sono in ritardo, tanto è vero che complessivamente non raggiungono al 2012 la soglia del 27%.
Il lavoro di Conai e Fondazione Sviluppo sostenibile, tuttavia, fa riferimento soltanto a una piccola parte del ciclo dei rifiuti, quello degli imballaggi. Quando la prassi del reporting investirà tutto il sistema, o quantomeno una sua quota più significativa, forse le sirene di allarme arriveranno anche ai governanti più duri d’orecchie.