L’Italia dovrà versare oltre 49 milioni di euro in totale alle tre società che hanno fatto ricorso contro la confisca di Punta Perotti. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo aggiungendo che “lo Stato italiano si deve astenere dal domandare ai ricorrenti di rimborsare i costi della demolizione degli immobili e i costi per la riqualificazione dei terreni”. Si tratta dell’ennesimo episodio della lunga vicenda dell’ecomostro di Bari. Vicenda iniziata quando nel 1992 le tre società ricorrenti, proprietarie di terreni sulla costa di Bari in località Punta Perotti, ottennero dal Consiglio comunale di Bari l’approvazione di due piani di lottizzazione dalle stesse presentati, alla quale seguì la conclusione di convenzioni di lottizzazione con il Comune di Bari, il rilascio dei permessi di costruire e l’avvio dei lavori di costruzione. Nel 1996 fu aperto un procedimento penale per lottizzazione abusiva che si concluse con il rinvio a giudizio dei legali rappresentati delle società coinvolte e con la successiva assoluzione degli stessi nei diversi gradi di giudizio. In primo grado si sostenne l’illiceità della costruzione degli immobili in quanto non conformi alla c.d. Legge Galasso (l. n. 431 del 1985), che vietava di rilasciare permessi di costruire riguardanti i siti di interesse naturale, tra i quali rientravano le zone costiere. Tuttavia gli imputati furono assolti sia perché l’amministrazione locale aveva rilasciato i permessi di costruire, sia, soprattutto, perché la normativa regionale, sotto il profilo del coordinamento con la c.d. legge Galasso, risultava lacunosa, individuando così uno di quei pochi casi di “ignoranza scusabile”. Il giudice dell’appello ha poi riconosciuto la legalità del rilascio dei permessi di costruire e della procedura di adozione ed approvazione delle convenzioni di lottizzazione. Sulla vicenda si pronunciò infine la Corte di Cassazione la quale cassò senza rinvio la decisione della Corte d’Appello riconoscendo l’illegalità dei piani di lottizzazione e dei permessi di costruire sul rilievo che i terreni interessati erano soggetti ad un divieto assoluto di costruire oltre che ad un vincolo paesaggistico imposto dalla legge.
Successivamente i proprietari si sono rivolti alla Corte europea ed hanno sostenuto, in particolare, che la confisca subita è incompatibile con l’articolo 7 della Convenzione il cui primo comma, esaminando il profilo dell’efficacia nel tempo della legge penale, sancisce che i cittadini dei Paesi membri della Convenzione non possono essere condannati per un fatto non previamente previsto come reato dal diritto vigente, ovvero non possano essere assoggettati a pene più gravi di quelle applicabili al momento della commissione del fatto.
La Corte europea ha accolto la doglianza sulla base delle seguenti motivazioni.
In base all’art. 7 della Convenzione, la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Nel caso di Punta Perotti, la Corte di Strasburgo, sottolineando il fatto che, secondo la Corte di Cassazione, gli imputati hanno commesso un errore inevitabile e scusabile nell’interpretazione delle norme violate, ha riconosciuto che le condizioni di accessibilità e prevedibilità della legge, non sono state soddisfatte.
Parallelamente, la Corte si è occupata della natura giuridica della confisca che per un consolidato orientamento della giurisprudenza nazionale costituisce sanzione amministrativa che il giudice penale deve disporre allorché accerti la sussistenza di una lottizzazione abusiva, in funzione di supplenza rispetto alla pubblica amministrazione. La Corte di Strasburgo ha ritenuto che la confisca sia una pena, sicché la giurisdizione italiana prevedendone l’applicazione al di fuori di ipotesi di responsabilità penale incorre nell’infrazione dell’art. 7 della Convenzione. Gli elementi a sostegno di questa tesi sono stati il suo collegamento con un reato accertato dal giudice penale, la finalità repressiva e non riparatoria della misura controversa e la sua gravità. La Corte, constatato che il reato, rispetto al quale la confisca è stata inflitta ai ricorrenti, non aveva alcuna base legale ai sensi della Convenzione e che la sanzione era arbitraria, ha affermato inoltre che vi è stata un’ingerenza arbitrario nel diritto al rispetto dei beni dei soggetti ricorrenti con conseguente violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1
Con la sentenza di ieri, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, sulla base dell’art. 41 della Convenzione (“se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”) ha riconosciuto il diritto al risarcimento dei ricorrenti, i quali nonostante la revoca della confisca non hanno goduto degli immobili costruiti perché demoliti e dei terreni ove è sorta o sta sorgendo un’area verde. È una sentenza che senza smentire il clamore scaturito dai precedenti eventi, fa discutere. La demolizione delle costruzioni è stata il simbolo della lotta agli abusi edilizi e agli ecomostri, ma le conseguenze che ne sono derivate non sono di poco conto. La causa di tutto è una normativa non chiara che la Corte di Strasburgo non ha potuto non riconoscere.