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Il piano dell’Ue sul clima: scaricare tutto sul prossimo esecutivo

Immobilismo totale fino al 2020, poi toccherà alla prossima Commissione alzare l’asticella sul clima. Intanto Bruxelles studia misure di geoingegneria

Miguel Arias Canete, Commissario Ue per clima ed energia
Miguel Arias Canete, Commissario Ue per clima ed energia

 

(Rinnovabili.it) – Il piano per il clima compatibile con l’accordo raggiunto alla COP 21? Sarà un problema della prossima Commissione. Così Miguel Arias Cañete, Commissario per l’azione climatica e l’energia dell’esecutivo Juncker, ha liquidato le domande in merito alla necessità di rivedere al più presto gli impegni comunitari di taglio delle emissioni. L’expertise più accreditata sta facendo notare che, per centrare il target di 1,5 °C, è necessario raggiungere le emissioni zero al 2050, obiettivo dal quale il mondo è oggi lontanissimo. Servirebbe dunque una azione rapida e concreta nell’immediato, senza aspettare il 2020, anno di entrata in vigore dell’accordo sul clima. Soprattutto quei Paesi che hanno dichiarato di voler guidare il processo, come la stessa Ue, non possono permettersi di rimanere 5 anni alla finestra. Ma Bruxelles si trincera dietro il suo pacchetto clima-energia 2030, dal quale non vuole schiodarsi. Esso, tuttavia, non è in linea con le necessità di tenere il riscaldamento globale «ben sotto i 2 °C», come il patto di Parigi ha sancito. Tantopiù che il Climate Action Tracker prevede emissioni europee più basse del 22-27% rispetto al 1990 già al 2020 grazie alla crisi e alle politiche messe in campo fino ad ora. Perché non giocare al rialzo invece di prendersi 5 anni di vacanza sulla pelle dei Paesi vulnerabili?

 

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«Nel 2020 saremo in grado di aumentare l’ambizione, ma toccherà alla prossima Commissione», ha tagliato corto Cañete. Il Commissario ha ammesso poi di non aver nemmeno analizzato le politiche necessarie a mantenere il global warming sotto 1,5 °C. Tuttavia, annuncia, ha annunciato che chiederà consulenza all’IPCC con l’intento di sondare le tecnologie per le cosiddette “emissioni negative”.

Dietro a questa espressione si celano sia le tecniche di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS e Beecs), costose e non testate su larga scala, sia altri metodi di geoingegneria dagli impatti sconosciuti sull’ecosistema e le persone. Tuttavia, l’industria e alcune istituzioni scientifiche spingono per queste soluzioni, che sono dietro l’angolo senza essere mai passate per un dibattito pubblico. È tutt’altro che improbabile che l’Europa decida di prendere questa strada. Al momento, infatti, la politica ha fallito su tutta la linea: gli impegni nazionali per la riduzione delle emissioni (INDCs), su cui si basa tutto l’accordo di Parigi, mettono il mondo sulla traiettoria di un aumento della temperatura pari a 2,7-3,5 °C entro fine secolo. Oltre il doppio rispetto a quanto raccomandato. L’immobilismo del sistema politico, frenato dalle esigenze di una industria fossile che catalizza ancora migliaia di miliardi di sussidi pubblici, rischia così di portare alla ribalta, sull’onda dell’emergenza, tecnologie semisconosciute e non vagliate a sufficienza. Investendo su di esse grosse cifre, tra l’altro, gli ambientalisti temono che la transizione verso le rinnovabili continuerà a rimanere un’utopia.