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I resti di petrolio grezzo sulle spiagge impiegano 30 anni prima di decomporsi

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La spiaggia di South Pass, in Louisiana, nel maggio 2010 – Foto credit Louisiana Department of Environmental Quality / flickr

A distanza di 9 anni dall’incidente, vengono facilmete rinvenuti agglomerati di petrolio grezzo della dimensione di palline da golf

 

(Rinnovabili.it) – A oltre 9 anni dal disastro della piattaforma petrolifera BP Deepwater Horizon, che sversò quasi 5 milioni di barili di petrolio grezzo nel Golfo del Messico, le spiagge della Florida sono ancora disseminate di agglomerati oleosi di petrolio grezzo che potrebbero impiegare 30 anni prima di decomporsi completamente.

 

Lo sostiene una ricerca condotta dalla Florida State University e pubblicata sulla rivista Scientific Reports: il disastro della Deepwater riversò petrolio su un’area stimata di 965 chilometri lungo le spiagge che affacciano sul Golfo del Messico. Nonostante gli sforzi di bonifica, condotti anche con scavatori meccanici, è ancora possibile rinvenire agglomerati di grezzo sepolti sotto la sabbia fino a 70 cm di profondità.

 

Isolati dai flussi delle maree, dall’azione dell’ossigeno e dall’attacco dei particolari microrganismi che abitano le spiagge sabbiose, questi agglomerati di petrolio (della grandezza media di 10 cm di diametro) impiegano tempi lunghissimi per dissolversi nell’ambiente.

 

Il team del professor Markus Huettel ha studiato negl’ultimi 3 anni i resti di grezzo sepolti sulla spiaggia di Pensacola, scoprendo che gli agglomerati delle dimensioni di una pallina da golf impiegano fino a 3 decadi per decomporsi: “Abbiamo anche trovato agglomerati di sedimenti delle dimensioni di una stampante da ufficio e persino più grandi – ha commentato Huettel – Se sepolti sotto la sabbia, questi residui potrebbero resistere molto più a lungo rispetto ai nostri campioni delle dimensioni di una pallina da golf”.

 

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I residui di uno sversamento di petrolio che approdano sulle spiagge sabbiose impiegano in media circa 1 anno per decomporsi. Gli habitat sabbiosi, caratterizzati dall’azione continua delle onde marine sia di superficie che sotterranee e dal flusso di ossigeno che l’alternarsi delle maree determina (inducendo i microrganismi a una maggiore attività metabolica) permettono tempi brevi di eliminazione dei materiali organici e quindi anche del petrolio: “La spiaggia, respirando con il ritmo delle maree, può quindi essere paragonata a un grande organismo che ‘digerisce’ aerobicamente la materia organica, inalando ossigeno ed espirando anidride carbonica – ha spiegato Huettel – L’apparente pulizia della sabbia di cui tutti godiamo quando andiamo in spiaggia è un riflesso dell’effettivo processo di decomposizione biocatalitica della spiaggia che rimuove il materiale degradabile in un tempo relativamente breve”.

 

Questo meccanismo, tuttavia, è estremamente fragile e la presenza di contaminanti nel sottosuolo per lunghi periodi di tempo potrebbe comprometterne il funzionamento: se il carico di particelle organiche e inorganiche cresce in modo insostenibile, le spiagge un tempo incontaminate e le sabbie costiere possono trasformarsi in terreni fangosi, impenetrabili all’ossigeno e quindi inospitali ai degradatori aerobici.

Un deterioramento che spiegherebbe l’aumento in tutto il mondo delle cosiddette zone ipossiche, quelle prive di ossigeno, secondo gli autori della ricerca.

 

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