Rinnovabili

Nucleare in Italia: un destino ineluttabile?

È passato poco più di un anno da quando gli italiani sono stati chiamati a esprimersi su una questione annosa e piuttosto attempatache, nonostante l’età, non sembra conoscere i segni del tempo. È il secondo week end di giugno 2011 quando, con uno stracciante 94,05%, ben 25.643.652 elettori, su 27.624.922 votanti, decidono di mettere una pietra sopra alla produzione di energia elettrica nucleare nel territorio nazionale. Se erano ancora caldi per quanto successo in Giappone oppure semplicemente stanchi di dover discutere sempre sulle stesse cose non si sa, ma il popolo risponde a una moratoria, prima, e a un’annunciata strategia energetica nazionale al limite del truffaldino, poi, con una visione chiara e consapevole: no al nucleare.
Un epilogo simile a quanto accade 14 anni prima, nel 1987, con una consultazione referendaria che mette in bilico tra il sì e il no di un’abrogazione 3 quesiti che di fatto non vietano la costruzione di nuove centrali né impongono lo smantellamento di quelle esistenti, ma limitano il margine d’azione del nucleare all’italiana. La risposta è sempre la stessa: gli italiani proprio non ne vogliono sapere del nucleare. Nel giro di un paio d’anni, il Paese del sole inizia a cancellare le tracce di ciò che era stato: a parte la centrale di Garigliano, chiusa già dal 1982, vengono spenti i motori di Latina, Trino e Caorso e stoppati i lavori di costruzione di Montalto di Castro. Il vocio che la questione era abituata a portarsi dietro si affievolisce col passare degli anni e sparisce dalle prime pagine di tutti i giornali, per poi tornarvici tra il 2005 e il 2008 e placarsi nuovamente con il referendum abrogativo del 2011 e la sua travagliata scheda grigia, il cui contenuto prospettava un destino che chi governava il Paese definisce “ineluttabile”.
Ma cosa è successo in questi 13 mesi?
A distanza di poco più di un anno dal Referendum del 2011, la nostra testata ha somministrato ai propri lettori un sondaggio per capire quali fossero le reazioni che si pensava si scatenassero in seguito all’esito referendario (le percentuali riportate sono quelle rilevate alla data di pubblicazione dell’articolo). Ebbene, un’aggressiva politica pro rinnovabili e risparmio energetico è l’azione che il 67% del campione credeva fosse messa tra le priorità politiche, seguita da un rapido programma di decontaminazione (27%) e una maggiore chiarezza sull’attuale situazione dei siti di stoccaggio (6%). Cosa sia successo nel corso di questo anno è cronaca.

RINNOVABILI E RISPARMIO ENERGETICO

Di sicuro la politica pro rinnovabili e risparmio energetico ha avuto connotati tutt’altro che aggressivi. Gli orientamenti si muovono oggi seguendo le indicazioni di un sistema incentivante poco moderno, sostenibile ed equo che, a detta di associazioni e operatori del settore, ha reso claudicante la produzione di elettricità “verde” in Italia. Che siano tanti o pochi gli incentivi messi a disposizione, che venga favorita una fonte piuttosto che un’altra o che vengano innescati meccanismi più o meno virtuosi, sono questioni sulle quali è importante dibattere, ma che poco contano di fronte a una presa di coerenza strategica a lungo termine su obiettivi, strumenti e risorse per raggiungerli. La partita, infatti, è ancora aperta tra chi sta cercando di dare conto a quanto richiesto dall’UE, in termini di riduzione delle emissioni, promozione delle FER e ottimizzazione del risparmio energetico, e chi, invece, ha altri interessi e spinge affinché si conservi quella gestione monopolistica delle cose che per sua natura tende all’ineluttabile.

IL DECOMMISSIONING

Il decommissioning è l’insieme delle attività da intraprendere in seguito alla chiusura di una centrale elettronucleare. Stando a quanto stabilito dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), sono 3 le opzioni percorribili – smantellamento immediato, custodia protettiva passiva e tombamento – tutte operazioni molto costose (dell’ordine di alcune centinaia di milioni di euro) e costituite da fasi gestionali che in alcuni casi possono durare anche decenni. L’Italia con il referendum dell’87 rinuncia all’uso civile dell’energia nucleare e mette in custodia protettiva passiva tutti gli impianti e le centrali presenti sul territorio nazionale fino al 1999, anno in cui viene costituita la Società gestione impianti nucleari (Sogin), la società di Stato che avrebbe dovuto smantellare tutti gli impianti e mettere in sicurezza i rifiuti radioattivi. A una prima fase di fatto progettuale, in cui si valuta cosa è meglio fare, come e con quale know how, ne segue una più operativa che vede il trasferimento all’estero di quasi tutto il combustibile (oltre il 99% della radioattività di un impianto) per il suo riprocessamento e l’avvio delle operazioni vere e proprie di smantellamento, culminate poco più di un mese fa con la conclusione dell’intervento di bonifica all’interno del sito nucleare di Caorso (circa 9.400 tonnellate di sistemi e componenti metallici sono state smantellate, separate tra contaminate e non contaminate e ridotte di grandezza, per poi essere decontaminate con specifici trattamenti di sabbiatura e idrolavaggio e allontanate dal sito).Tra il controllo degli operatori industriali direttamente coinvolti e quello di Enti e Istituzioni nazionali e locali, il decomissioning sembra procedere su una strada piuttosto spianata, anche se certe questioni non riesce a chiuderle. Se è vero, infatti, che la quasi totalità del combustibile, che lo ricordiamo è il componente più radioattivo, viene riprocessato oltralpe (in Francia e Regno Unito), è vero anche che la decontaminazione di un sito si porta con sé tutta una tipologia di materiali di scarto che deve comunque essere correttamente gestita. Dove mettere quanto prodotto in campo medico, per esempio? E dove il materiale che, finito il riprocessamento, la Francia e il Regno Unito ci rispediranno a casa? Perché non è così infrequente che forze dell’ordine e Sogin collaborino insieme alla rimozione di rifiuti radioattivi trovati alla mercé di fiumi o discariche di RSU?

LO STOCCAGGIO DEI RIFIUTI

La questione del decommissioning in Italia è strettamente legata a quella della costruzione di un deposito nazionale di rifiuti radioattivi. Ad oggi, pur non essendoci un deposito formalmente e “universalmente” riconosciuto di rifiuti radioattivi, esistono ben 8 depositi temporanei gestiti da Sogin dove i rifiuti vengono “sistemati” in attesa di una collocazione migliore: oltre a quelli realizzati nelle 4 centrali chiuse (Latina, Garigliano, Caorso e Trino), ce ne sono altri 4 ricavati, rispettivamente, negli impianti Itrec di Trisaia Rotondella, Eurex di Saluggia, FN di Bosco Marengo e Opec e Ipu di Casaccia. Chiamarli definitivi oppure temporanei è una pura allocuzione linguistica perché di fatto i depositi esistono e sono operativi. Per quanto riguarda gli scarti “blandi”, quelli di I e II categoria, è ipotizzabile pensare a una loro sistemazione definitiva in appositi siti e gestirne opportunamente la radioattività su un arco temporale umanamente confrontabile. Il problema si pone quando a essere maneggiati sono gli scarti di III categoria, i cui tempi di decadenza sono dell’ordine di decine o addirittura centinaia di migliaia di anni. Esse sono composte dalle scorie del riprocessamento e dal combustibile stesso e, dopo anni di ricerca su come riuscire a trattarle, ancora non si sa come e dove sistemarle. C’è chi pensa di trattarle per farle scalare alla II categoria o chi è in cerca di un sito geologicamente stabile per sotterrarle, ma nessuno ancora ha trovato la risposta. I rischi che operazioni mal calibrate possono provocare sono altissimi, sia per la salute dell’ambiente che per quella umana. Fa riflettere, a titolo di esempio, quanto accaduto in Germania, ad Assen e Gorleben, siti individuati come ideali per un deposito definitivo delle scorie, oggi in situazione di emergenza a causa di un allargamento della falda acquifera che si sta infiltrando nei locali di stoccaggio. Proprio qualche giorno fa Sogin ha stimato in 5 miliardi di euro la spesa per terminare la bonifica dei siti nucleari e in 2,5 miliardi quella per progettare e realizzare il Parco Tecnologico dove dovrà sorgere un deposito nazionale per i rifiuti radioattivi.

*Stime al 2012 della International Atomic Energy Agency.

 

IL CASO DI SCANZANO JONICO

Singolare l’esperienza vissuta dagli abitanti di Scanzano Jonico, un piccolo paese lucano preso di mira, tra gli anni 70 e il 2003, da chi pensava di utilizzare le miniere di salgemma di cui era dotato per realizzarvi un deposito geologico di scorie nucleari. A raccontarci quanto accaduto è Pasquale Stigliani, il portavoce dell’associazione Scanziamo le Scorie nata proprio dalla mobilitazione che ci fu nel 2003 contro quel decreto che aveva individuato a Scanzano il luogo ideale dove stoccare le scorie nazionali. Appresa la notizia, i cittadini reagirono immediatamente contro un’operazione che ritenevano ingiusta sia per l’inesistenza nel mondo di esperienze capaci di garantire la sicurezza e la salute ambientale e umana sia perché si trattava di una conversione territoriale che mal si conciliava con le attività economiche e produttive locali. «L’assenza di una garanzia nella dottrina scientifica – ha spiegato Stigliani – ha posto i cittadini di fronte a una percezione del rischio molto elevata, che, per un territorio vocato principalmente all’agricoltura e al turismo, sarebbe ricaduta non solo sul tessuto sociale, ma anche in quello economico». Il sito era stato scelto sulla base di un decreto e di una presunta documentazione tecnica disponibile in sede europea e, pur non essendo stato nemmeno qualificato dalla scienza come deposito definitivo di rifiuti di I e II categoria, veniva addirittura preposto a deposito geologico per le scorie di III categoria. Un situazione che, è impossibile negarlo, ha del paradossale e ha scatenato quello che ha scatenato. A distanza di 9 anni, la costruzione di un deposito a Scanzano è ancora oggi ferma a un nulla di fatto.

INELUTTABILITÀ?

Tornando sulla domanda iniziale, probabilmente in Italia l’epilogo di una scelta energetica orientata al nucleare non è poi così ineluttabile come si vuole far credere. Le questioni irrisolte sono ancora troppe e abbracciano tanto la sicurezza quanto e soprattutto la copertura economica necessaria a sostenere certe operazioni. Per non parlare poi dei rischi reali per la salute umana in caso di incidenti o terremoti, per esempio, fenomeni per il nostro Paese per nulla infrequenti. Osservando poi quello che stanno facendo i nostri “vicini di casa” (la Svizzera e il Belgio hanno già annunciato di voler uscire dall’epoca nucleare, così come la Germania – che pare stia pensando di buttarsi sulle centrali a carbone – e la Francia, che proprio un paio di giorni fa a dichiarato di voler abbassare dal 75% al 50% la quota di produzione elettrica coperta dal nucleare), viene da chiedersi dove stia puntando la strategia energetica del nostro Paese, ammesso che ci sia.
Su un fronte diametralmente opposto, invece, ci sono le “alternative”, la cui esistenza è un dato di fatto. Non che non siano anch’esse esenti dal superamento di numerose barriere politiche, economiche, strutturali e culturali, ma perché non pensare a loro come un destino inevitabilmente ineluttabile?

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