Ultimo capitolo per "La XXIX Campagna Antartica italiana: diario di un ricercatore". Si conclude così l'appassionante viaggio tra i ghiacci, i colori e la spettacolare fauna dell'altro capo del mondo
La notizia ufficiale del nostro viaggio di ritorno arriva all’improvviso dopo alcune settimane di reale incertezza. La riunione indetta dal capo spedizione alle ore otto di mattina finalmente definisce con chiarezza l’inizio del nostro viaggio di ritorno dall’Antartide.
L’indomani pomeriggio ci imbarcheremo sulla nave rompighiaccio coreana ARAON che salperà a mezzanotte dello stesso giorno con destinazione il porto neozelandese di Lyttlelton. Per percorrere le circa 2000 miglia che ci separano dalla civiltà, saranno necessari nove giorni di navigazione dei quali quasi la metà in un mare completamente ghiacciato.
L’ultimo giorno in base, dedicato alla preparazione del materiale scientifico e dei campioni raccolti, passa in un attimo e alla sera, finalmente, tutte le casse vengono chiuse e dotate di tutta la documentazione necessaria alla loro spedizione. Questo materiale verrà imbarcato sula nave ITALICA, la nostra rompighiaccio, che salperà dalla base Mario Zucchelli a febbraio insieme al personale logistico e i ricercatori del terzo ed ultimo periodo della XXIX spedizione antartica.
Siamo in nove a lasciare la base e le nostre ultime ore serali sono dedicate alla pulizia dei laboratori e alla preparazione delle valige. La mattina seguente ne approfitto, prima di pranzo, per andare a Punta Stocchino, davanti alla base, a dare un’occhiata al pack per l’ultima volta.
Mi sembra sia passato un attimo da quando sono stato qui la prima volta, ma appena guardo il drastico cambiamento che ha subito il panorama davanti alla base, mi rendo conto che sono già due mesi quelli trascorsi a questa latitudine.
Lo scenario è profondamente mutato, il ghiaccio si è rotto e quasi metà della baia è invasa da un mare frenetico che mostra la sua giovane bellezza con gradazioni di colore irripetibili.
Sono assorto in questi pensieri quando Edoardo, il collega del CNR di Genova con il quale ho condiviso questa meravigliosa avventura, mi ricorda che è ora di pranzo e dobbiamo tornare in base.
Subito dopo recupero le valige e mi avvio verso il piazzale dove abbiamo appuntamento per essere caricati sui mezzi che ci porteranno sotto la nave coreana. Come sempre accade, chi rimane, si riunisce per salutare i “partenti” e spesso gli occhiali scuri non riescono a nascondere le lacrime. Anche se relativamente pochi, i giorni vissuti in base sono così intensi e veri che riescono a creare amicizie che andranno oltre, che dureranno molto di più del ghiaccio dove sono state generate.
Con gli occhi decisamente lucidi ci troviamo sui diversi mezzi che percorrono lentamente il tratto di pack che ci separa dai grandi iceberg dietro ai quali, all’improvviso, la nave ci appare come un “gigante rosso” incastrato nel ghiaccio. Vederla in questo modo alimenta alcuni dubbi sulla possibilità che possa realmente riuscire a muoversi in questo mare ghiacciato.
L’ARAON, che in coreano significa “in tutti i mari”, è in realtà una nuovissima nave della classe KR-Polar 10, ha una lunghezza di 111 metri e una stazza lorda di 7000 tonnellate ed è in grado di navigare nel ghiaccio ad una velocità di crociera di 12 nodi, assicurata da due impianti gemelli del tipo “Azimuth” diesel-elettrici. La nave può ospitare fino a 85 persone.
Attendiamo il via libera del responsabile coreano “Mr. Cho” prima di salire a bordo ed attendere che le nostre valige vengano issate con la rete da carico. A nostra disposizione abbiamo delle nuovissime cabine a due posti con vista mare delle quali prediamo possesso prima del breve corso di sopravvivenza al quale veniamo immediatamente sottoposti.
Dopo circa un’oretta di lezione in inglese (mediante dei videocorsi) veniamo scortati sul ponte dove ci attende una prova pratica che consiste nell’indossare la tuta di sopravvivenza oceanica che permette di resistere per qualche minuto in più nell’acqua ghiacciata del mare antartico. Ovviamente ci auguriamo di indossarla solo in questa occasione. Immediatamente dopo abbiamo già la cena pronta, rigorosamente coreana, servita nella sala ristorante. Ci rendiamo conto di essere gli unici passeggeri insieme a quattro ricercatori russi e che di conseguenza dovremmo adattarci agli orari dei pasti dell’equipaggio coreano.
Dopo la strana cena coreana (non abbiamo capito cosa abbiamo mangiato!) usciamo sul ponte per vedere le ultime operazioni di carico/scarico prima della partenza. Alcuni elicotteri trasportano, a turno, barili di carburante dalla nave alla base coreana in costruzione alla base del ghiacciaio. Con i miei compagni di viaggio ci avventuriamo dentro la nave e gironzoliamo tra i diversi ponti alla scoperta delle sale e dei laboratori che sembrano ben equipaggiati anche se assolutamente ancora da allestire.
Ad un certo punto sentiamo il rumore dei motori e del ghiaccio e ci precipitiamo su ponte: è mezzanotte e ci stiamo muovendo.
Sembra incredibile ma la nave si sposta rompendo il ghiaccio con una facilità disarmante. Lo scenario tutt’intorno è magico. La luce “notturna”, complice un cielo parzialmente nuvoloso, colora tutto il ghiaccio con una nota calda e dorata che non avevamo mai visto prima.
Ci lasciamo dietro una scia di ghiaccio rotto che traccia il nostro passaggio e libera mini-iceberg che galleggiano all’infinito dietro di noi.
In un attimo la nave scivola fuori dal pack e comincia la sua navigazione ai margini del pack passando di fronte alla base italiana che ci sembra oramai irraggiungibile e in un attimo già lontana.
Nel giro di qualche ora passiamo di fronte a zone che abbiamo visitato per i diversi campionamenti e che ci appaiono profondamente diverse ora che la banchisa è stata aggredita dal mare.
Attraversiamo anche l’area di Cape Washington ed incontriamo diversi pinguini imperatore dispersi su zattere di ghiaccio in movimento con la corrente. Il freddo è intenso ma rimaniamo fino a notte fonda per ammirare questi paesaggi straordinari illuminati da un sole velato. Intravediamo, grazie al teleobiettivo, la grande colonia dei pinguini ai piedi dello scuro promontorio.
Finalmente la nave sembra prendere la direzione del mare aperto e lentamente la costa si allontana, i promontori, i ghiacciai e gli iceberg incastrati nel pack, nel giro di pochi minuti, scompaiono e ci troviamo all’improvviso in un mare scuro, piatto, silenzioso e privo di ghiaccio che non sembra essere il mare antartico. La stanchezza prende il sopravvento e finalmente ci concediamo qualche ora di riposo.
Al risveglio il rumore sordo del ghiaccio che si rompe ci stimola ad indossare immediatamente gli indumenti tecnici e tornare sul ponte a prua dove troviamo uno scenario completamente nuovo.
Il tempo è pessimo, nuvoloso con nebbia, e la distesa di ghiaccio che la nave aggredisce con colpi assordanti sembra essere infinita. Dalla plancia il comandante ci invita a salire e ci spiega che siamo entrati nella cintura di ghiaccio che circonda l’Antartide e che questa “rumorosa” andatura durerà almeno per altri tre giorni di navigazione.
Il comandante ci propone anche una sfida che non possiamo non accettare. La sua idea è quella di metterci a disposizione la cucina e gli ingredienti di cui abbiamo bisogno per preparare una “cena italiana” per tutto l’equipaggio. Accettiamo con entusiasmo e torniamo sul ponte ad osservare la navigazione nel ghiaccio ed osservare gli iceberg che ogni tanto incrociamo. Il freddo è intenso e rimanere per troppo tempo è impossibile. Quasi tutti rientrano ed io mi fermo ancora qualche minuto per riprendere le immagini della carena che rompe il ghiaccio dal foro centrale presente a prua. Mi sporgo per tenere la telecamera, montata su un’asta regolabile e snodata, nella giusta posizione per riprendere la prua da un’angolazione suggestiva. I colpi che rompono il ghiaccio che si fanno via via sempre più fragorosi e la nave rallenta visibilmente fino a fermarsi completamente incastrata nel ghiaccio. Continuo a riprendere e mi accorgo che del personale coreano è sceso a verificare lo stato del ghiaccio e mi avvisa che dobbiamo tornare indietro e cambiare rotta.
Nel giro di pochi secondi la nave comincia la sua lentissima retromarcia che durerà alcune ore. Alla sera il comandante ci avvisa che per non rischiare di rimanere nel ghiaccio troppo spesso ha deciso di fare una deviazione di circa 100 miglia alla ricerca di un passaggio migliore e meno problematico.
A cena tentiamo di partecipare ma il piatto con un brodo di colore rosso in cui galleggiano, muovendosi al ritmo dei colpi nel ghiaccio, delle enormi teste di pesce ci spinge a rinunciare. Fortunatamente, i cuochi della base italiana, ci avevano fornito una sorta di “cassa di sopravvivenza” con alcuni salami, formaggi, biscotti, succhi di frutta: la nostra principale fonte di sostentamento durante questo lungo viaggio.
La mattina seguente, dopo aver osservato per diversi minuti ancora pinguini e foche sorpresi dall’incedere della nave e dalle numerose crepe che il suo passaggio generava, ci siamo dati appuntamento in una sala al primo ponte per organizzare la nostra strategia e la cena, prevista per le ore 18:30.
Nel pomeriggio ci sono state consegnate le virtuali chiavi della cucina e tutti gli ingredienti richiesti e nel giro di pochi minuti ci siamo impadroniti della situazione ed abbiamo cominciato, suddividendoci i compiti, a cucinare come una squadra di “MasterChef” per tutto il pomeriggio preparando un tris di pasta (carbonara, cacio e pepe e tonno e olive) per le oltre cinquanta persone dell’equipaggio.
Anche se, in puro stile coreano, nessuno di loro si è lasciato andare a manifestazioni di entusiasmo ma il fatto che molti di loro si sono concessi il bis e l’assoluta mancanza di avanzi ci ha decisamente convinto di aver superato con successo la sfida culinaria in alto mare.
Dopocena e fino a notte fonda siamo stati coinvolti, da alcuni membri dell’equipaggio, in un’improbabile serata “karaoke & birra” che ricorderemo per molto tempo.
Il giorno successivo (il quarto dei nove previsti) lo scenario è nuovamente cambiato e per diverse ore abbiamo attraversato aree di mare prive di pack compatto ma letteralmente ricoperte di lastre di ghiaccio in cui navigavano enormi iceberg che ora dopo ora sono diventati sempre più piccoli fino ad un momento preciso in cui è apparso evidente che eravamo appena usciti dalla cintura dei ghiacci: verso un mare blu scuro, libero da qualsiasi forma di ghiaccio, allontanandoci lentamente da un orizzonte bianco che si perdeva in un inaspettato tramonto nuvoloso.
Senza parlare ci siamo subito tutti guardati negli occhi consapevoli di essere in prossimità della famigerata convergenza antartica, una ristretta fascia di mare dove le acque fredde s’incontrano con le acque relativamente più calde delle zone subantartiche o temperate. Quest’area è caratterizzata dal succedersi di sistemi ciclonici, causati dall’incontro tra l’aria fredda dell’Antartide e l’aria calda che giunge dal centro degli oceani, in grado di generare tempeste con onde gigantesche e vento di grande intensità tanto da essere nota in letteratura come i “40 ruggenti ed i 50 urlanti” dal rumore che i venti provocano, sibilando attraverso gli alberi, il sartiame e la velatura delle imbarcazioni a vela, che somiglia a un ruggito sui 40° e ad un grido sui 50° di latitudine.
Non sono passati neanche dieci minuti che i “50 urlanti” si sono fatti sentire in tutta la loro furia. Le onde oceaniche di immense dimensioni hanno cominciato a spazzare il ponte e siamo stati costretti a rientrare per ovvi motivi di sicurezza. La nave ha cominciato una danza di rollio-beccheggio che non avevo mai vissuto in precedenza. Da questo momento il viaggio diventerà veramente impegnativo per quattro interminabili giorni che qualcuno non dimenticherà tanto facilmente.
Io fortunatamente, dovendo difendere la stima dei pescatori di Camogli, città dove vivo da alcuni anni, sono riuscito ad essere sempre lucido occupandomi anche dei miei compagni di avventura che per alcuni giorni non hanno abbandonato le loro cuccette.
Durante una delle mie quotidiane uscite sul ponte sono riuscito a fotografare uno degli splendidi esemplari di albatros che seguivano da giorni la nave. Con questa immagine voglio concludere il racconto della mia missione in Antartide che tra qualche giorno culminerà con l’ultimo viaggio aereo (circa quaranta ore) per raggiungere l’Italia. Sono stati due mesi intensi, impegnativi e bellissimi che mi hanno dato tanto sia dal punto di vista lavorativo che umano e che probabilmente cambieranno il mio modo di affrontare anche la quotidianità della vita normale.
Non sono sicuro che si possa veramente soffrire di “mal d’Antartide” ma già da ora, quel continente bianco, mi manca e sarei pronto a ripartire immediatamente se si presentasse una nuova opportunità di ricerca.
Colgo l’occasione per ringraziare il mio ente (CNR), il mio istituto (ISMAR-CNR) ed il Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA) che hanno permesso questa formidabile avventura di ricerca ed esplorazione e concesso il privilegio di potervela raccontare.
di Marco Faimali (ISMAR-CNR) – Progetto RAISE – PNRA – XXIX Campagna Antartica
Lo straordinario viaggio in Antartide finisce qui ma potete continuare a “sfogliare le pagine” del Diario di un ricercatore seguendo Blu Lab, il blog di Rinnovabili.it a cura di Marco Faimali.