(Rinnovabili.it) – Ajmad Miyah, giovane contadino bengalese, ha rinunciato a trovare una nuova sistemazione. Tre anni dopo che il mare inghiottì la sua casa sulla costa dell’Isola di Bhola, non ha ancora alcuna proprietà o beni, e sopravvive solo coltivando campi di altre persone in cambio di cibo. “Ho accettato che questa sia la mia realtà. La mia casa sarà per sempre temporanea, come me, su questa Terra”. La nuova realtà con cui sta facendo i conti Miyah è la stessa che stanno affrontando oggi più di 20 milioni di persone nel mondo, costretti dalle calamità naturali ad una fuga forzata. Di questi, il 90 per cento è stato costretto ad abbandonare la propria casa in seguito a eventi meteorologici estremi, come inondazioni, siccità e tempeste, finendo in un limbo giuridico, senza diritti, o aiuti garantiti. Il diritto internazionale, infatti, non prevede meccanismi che permettano a chi scappa dai disastri climatici di ottenere asilo in un altro Paese.
“Siamo in ritardo con le misure di protezione e assistenza a questo gruppo (di profughi) di cui non abbiamo nemmeno riconosciuto la grandezza”, spiega Jan Egeland, segretario generale del Consiglio norvegese per i rifugiati, parlando a margine dei negoziati sul clima delle Nazioni Unite. La migrazione forzata legata alle pressioni del clima ha raggiunto oggi la dimensione di un “mega-problema” al cui confronto gli attuali flussi di rifugiati legati a conflitti potrebbero impallidire.
Solo lo scorso anno guerre e violenza hanno messo in fuga 11 milioni di in Siria, in Afghanistan e in altre regioni tormentate del mondo. Ma il numero medio di persone sfollate dal climate change, conta una media 22,5 milioni di migranti climatici l’anno dal 2008. E il trend sta crescendo. Ecco perché alla COP21, aggiunge Egeland, “è di fondamentale importanza riconoscere in un documento giuridicamente vincolante che si tratta di un mega-problema”.
Nel mese di ottobre, le nazioni povere e in via di sviluppo (note come il Gruppo dei 77 e la Cina) hanno presentato una proposta per i colloqui di Parigi finalizzata a fornire un piano per i migranti del clima, uno sforzo iniziato nel 1991, quando l’isola di Vanuatu suggerì un sistema di assicurazione globale per la compensazione delle perdite indotte dal clima.
Ma quando si parla di risarcimenti e di colpe c’è sempre chi storce il naso e gli Stati Uniti insieme ad altri paesi industrializzati, tra cui il Giappone, l’Australia e la Svizzera, si sono apertamente schierati contro l’inclusione di misure in materia di migranti climatici nel testo dell’accordo parigino.
Per ora l’ultimo documento uscito dal tavolo dei negoziati, menziona – e per la prima volta – la necessità di proteggere i profughi climatici, come spiega William Lacy Swing, direttore generale dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Ma per aiutare davvero le persone, fa notare Alfredo Zamudio, capo del Internal Displacement Monitoring Centre del Norwegian Refugee Council, a trovare un modo per lottare anziché migrare, sarà necessario spendere soldi sia per limitare gli impatti del cambiamento climatico che per assistere i più indigenti nell’applicazione di misure di resilienza. “Lo spostamento può essere prevenuto, può essere ridotto al minimo, ma solo aumentando gli investimenti in misure di mitigazione e adattamento”, ha dichiarato Zamudio “Questo è il momento di agire”.