Sono stanco e anche disgustato (oltre che addolorato) di commentare, ancora una volta, le ennesime alluvioni di questo nostro martoriato paese. Stanco di dire che sì, era prevedibile, perché le quantità d’acqua sono state eccezionali, ma non da record (i 900 mm del 1970) e perché c’era comunque un’allerta della protezione civile, oltre a non poter ignorare quanto accaduto già nel 2011. C’erano poi i precedenti alluvionali in città degli anni Novanta. Ma soprattutto ci doveva essere la consapevolezza di un territorio ormai chiaramente inadeguato a ricevere quantità di pioggia anche minori di quelle cadute effettivamente. Fiumi intombati e “forzati” non possono che esplodere come bombe idrauliche sotterranee in quelle condizioni meteorologiche e non tenerne conto è colpevole come non fare alcunché.
Sono anche stanco di dire che la Genova di secoli fa era una città arroccata sulle alture e i suoi cinque corsi d’acqua erano liberi di scorrere a mare. Successivamente la città si ingrossa e non si tiene più conto del vincolo naturale nell’illusione di poter controllare i fiumi attraverso gli argini. Una volta Genova finiva al torrente Ferreggiano che è stato sepolto per costruirci meglio sopra. E molta parte d’Italia è in queste condizioni: non solo la pioggia è cambiata, sono cambiati anche i fiumi e le città.
E sono stanco di ripetere che, oltre alle quantità rilevanti di pioggia, che però non si possono considerare più eccezionali e alla costituzione geologica particolarmente attiva del nostro territorio, il resto è decisamente colpa nostra. Costruzioni abusive e non e infrastrutturazione selvaggia occupano in Italia circa 200.000 ettari all’anno (contro i 30.000 della Germania): in nessun paese moderno e sviluppato si usa più cemento che da noi.
E anche stanco di dire, ancora una volta che sì, i fiumi vanno ripuliti dai detriti, dai tronchi morti e dagli eccessi locali di sedimento, ma che non è quello il problema e che, soprattutto, non si possono trasformare i corsi d’acqua in canali cementificati, perché così si perde una risorsa economica, si rende innaturale la campagna, non si permette ai sedimenti di ripascere naturalmente le spiagge e non si risolve il problema delle alluvioni, come dimostrano i casi statunitensi di Los Angeles e Las Vegas.
Salvare vite si può con una migliore comunicazione fra Protezione Civile/Prefetture e amministratori /cittadini, magari utilizzando allarmi via sms o social network. Ma a patto che gli amministratori prendano sul serio gli allerta e non protestino se, per fortuna, non tutti si risolvono poi in un’alluvione. Si può incitare a non scendere in strada, a salire ai piani alti e predisporre località per ubicare le autovetture in zone sicure: molti hanno perso la vita per colpa degli automezzi scagliati come proiettili, o che sbarravano la via, altro che alberi nel greto. Nel lungo periodo però le cose devono cambiare: la pianificazione ordinata e consapevole dei territori a rischio deve prendere il posto dell’inurbazione a macchia di leopardo.
Divieto assoluto di costruire nelle zone a rischio e anche di ampliare le volumetrie secondo i famigerati piani-casa regionali, istituzione di parchi naturali, esclusione assoluta dei condoni, limitate opere di ingegneria naturalistica (dove veramente occorre) e rinaturalizzazione di torrenti e fiumi che debbono essere lasciati liberi di respirare e esondare in sicurezza almeno a monte delle zone abitate. La natura non è né buona né cattiva, non esistono i fiumi killer e le frane assassine, e nemmeno esistono le catastrofi naturali, ma solo gli eventi naturali che diventano catastrofici per colpa nostra. E la convivenza, in un mondo caldo e affollato, dipende solo dalla nostra capacità di fare un passo indietro dove le condizioni non permettono di vivere nel benessere cui siamo abituati.