La doverosa riflessione, a freddo, sulla sentenza nei confronti degli esperti della Commissione Grandi Rischi
Ho parlato casualmente qualche giorno fa con un qualificato osservatore italiano che lavora in Ucraina, chiedendogli se, all’indomani della sentenza dell’Aquila per omicidio colposo plurimo, emessa nei confronti degli esperti della Commissione Grandi Rischi – che all’epoca della scossa di terremoto dell’Aquila, il 6 aprile 2009, erano in carica – fosse giunta eco in quel Paese e che cosa ne pensasse. La notizia ha viaggiato in rete alla velocità della luce e mi interessava conoscere l’opinione di un osservatore “freddo”, equidistante, che nella vita non fa lo scienziato e non ha a che fare con i movimenti tellurici. Mi ha risposto che sì, era giunta notizia anche a Kiev, dove lavora in una istituzione, ma che non avendo letto la sentenza e la motivazione, non si riteneva in grado di esprimere alcun giudizio. Mi sono chiesta se, avendo avuto io stessa il privilegio di lavorare per tanti anni a contatto con la comunità scientifica, nell’ambito della comunicazione, mi sentissi in grado di formulare con sicurezza un giudizio su questa vicenda che, oltre ai titoli dei giornali, coinvolge persone in carne e ossa, famiglie con i loro incolmabili dolori e, dall’altra parte, esperti di fama internazionale, chiamati a mettere al servizio della collettività le loro competenze.
Ho avuto la conferma che è difficilissimo formare un giudizio su un tema così delicato, se non si è in possesso di tutti gli elementi. Tuttavia, l’impressione è quella, amara, di una sconfitta per tutti. La comunità scientifica risulta colpita. Il diritto, rischia di ottenere il risultato opposto a quello atteso: anziché incidere sul rafforzamento del sistema delle responsabilità, in prima battuta sembra preludere all’abdicazione delle strutture dotate di expertise scientifiche. E’ l’allarme lanciato da 253 funzionari del Dipartimento della Protezione Civile, che in una lettera aperta pubblicata ieri on line hanno dichiarato di temere di “ritrovarsi soli e indeboliti, senza il supporto della comunità scientifica, dopo la sentenza del 22 ottobre 2012”. “Penso che aver affidato le decisioni politiche a un comitato di tecnici sia stato l’errore dell’Aquila” – ha dichiarato all’Ansa il ministro dell’Ambiente Corrado Clini, all’indomani della sentenza. “Deve cambiare o essere più chiara la catena del comando. Non si può chiedere a tecnici e scienziati di assumersi una responsabilità che dovrebbe essere amministrativa e in ultima istanza politica”. Clini ha acceso un faro sulla responsabilità della macchina dello Stato, quell’insieme di leggi, uomini e strutture sulle quali, in origine, si è fondato lo stato unitario.
Per associazione di idee, l’evocazione del ruolo della “macchina dello Stato” mi ha riportato alla mostra che in occasione delle celebrazioni dei 150 dell’Unità d’Italia, la Presidenza del Consiglio dei Ministri promosse con l’Archivio Centrale dello Stato,dal settembre 2011 al marzo 2012, a Roma. Fra i contenuti, le immagini e le testimonianze esposte in un percorso che “si riferiva – sono parole del Sovrintendente dell’Archivio Centrale dello Stato, Agostino Attanasio – a ciò che lo Stato ha fatto nei diversi ambiti dell’organismo sociale, agli ordinamenti che ha stabilito, ai sedimenti organizzativi che ha depositato”, due cose mi colpirono particolarmente: i nomi degli scienziati che sedettero nei Parlamenti dell’Italia post-unitaria e le immagini del terremoto calabro-siculo del 28 dicembre 1908, con le conseguenze che produssero sull’organizzazione della “Macchina dello Stato”. Partiamo dagli scienziati, grazie alla cui spinta civica, formalizzata con la prima riunione a Pisa, nel 1839, l’Italia compì il primo passo di un’incalcolabile serie di progressi, sia nella fase pre-unitaria risorgimentale, sia dopo l’unificazione, realizzando avanzamenti sia nelle conoscenze, sia nel favorire il riscatto degli strati sociali più svantaggiati. Fu lo scienziato Quintino Sella a conseguire il pareggio di bilancio, nel 1876, in una Italia post-unitaria il cui disavanzo, dieci anni prima, nel 1866, al termine della Terza guerra d’Indipendenza, era oltre la metà delle spese effettive e il debito era pari a circa tredici volte le entrate tributarie. Furono senatori del Regno d’Italia Cesare Correnti, due volte ministro della Pubblica Istruzione, che si batté per l’obbligatorietà della scuola elementare, all’epoca solo di un biennio; Angelo Mosso, fisiologo, che forte del suo prestigio scientifico propose la riduzione dell’orario di lavoro a dieci ore. Edoardo Perroncito, medico, che riuscì a debellare l’anemia dei minatori che mieteva vittime fra gli operai impegnati negli scavi per i trafori alpini. Scienziati di spicco come Vito Volterra e Gustavo Colonnetti, che nel secolo scorso furono presidenti del CNR, sedettero negli scranni più alti: il primo, nominato nel 1905 senatore del Regno per meriti scientifici; il secondo, deputato dell’Assemblea Costituente nel 1946. E ancora, icone di modernità, come Guglielmo Marconi, che Premio Nobel per la Fisica, fu anche senatore del Regno e presidente del CNR. Tutti, maestri nel fare del metodo scientifico un formidabile strumento per la costruzione sia della “macchina dello Stato”, sia della sua amministrazione. Innovatori e precursori al tempo stesso. In quell’Italia post-unitaria si situò l’emergenza dei terremoti, con una lunga serie di eventi drammatici – come documenta la studiosa Fosca Pizzaroni nel catalogo della mostra “La Macchina dello Stato”. E nasce, in nuce, il sistema di prevenzione, monitoraggio, protezione e intervento.
“Nel 1881 – scrive la studiosa – si manifestarono eventi simici in varie zone della penisola ed è in quest’anno che troviamo le prime tracce di documenti tra le serie documentarie del Ministero dell’Interno e di interventi legislativi in materia. Ma è con il disastro di Casamicciola (1883) e il sisma della Liguria (1887) che si hanno provvedimenti normativi di importanza basilare: le prime leggi contenenti norme in caso di terremoto”.
Con i movimenti tellurici della Calabria (1905) e il terremoto siculo-calabrese (1908), infine, la normativa vede uno sviluppo fortemente innovativo: per la prima volta si nota la volontà di definire procedure di intervento, sia riguardo ai primi soccorsi, sia in materia di ricostruzione con metodi antisismici e sia sulle modalità di impiego delle somme raccolte. Inoltre, viene ampliata la portata delle disposizioni, con riferimento al fenomeno economico nella totalità dell’impatto socio-ambientale, con un occhio “alle problematiche relative all’istruzione, alla produzione agraria e industriale, alla viabilità e all’attenzione per l’ambiente”. All’evoluzione normativa fa da contraltare quella degli apparati burocratici.
All’indomani del terremoto della Calabria, del 1905, nasce l‘Ufficio provvisorio dei servizi di beneficenza per i danni del terremoto nelle Calabrie, in seno alla divisione terza per l’assistenza e la beneficenza pubblica, della direzione generale del Ministero dell’Interno. L’attributo provvisorio metteva in risalto l’abitudine della burocrazia a organizzarsi in modo precario di fronte alle emergenze, “identificando l’andamento dei fenomeni geofisici con quelli amministrativo-istituzionali”. “La rovinosa concomitanza ” del ripetersi delle scosse telluriche nella zona calabro-sicula, nel 1905, 1907, 1908, e l’eruzione del Vesuvio nel 1906 portò la struttura provvisoria a divenire definitiva con il nome di Ufficio servizi speciali. L’ufficio, riformato nel 1920, fu operante fino alla Seconda Guerra Mondiale. Dopo, la storia è quella dell’Italia Repubblicana, dove la Protezione Civile diventa un modello di intervento riconosciuto nel mondo e l’importanza delle competenze scientifiche e manageriali diventa notizia. Dalle macerie di un terremoto è nato in nuce un modello di gestione delle responsabilità. Che non si debba mai dire che il discendente di quel modello è crollato sulle macerie delle altrui responsabilità.