Tra le notizie passate inosservate, nelle celebrazioni dell’anniversario di Fukushima, una è quantomeno bizzarra: secondo il rapporto del World Energy Council (WEC, Nuclear Energy: OneYearAfter Fukushima), che fa il punto sulle prospettive del nucleare dopo la catastrofe giapponese, nel marzo 2011 per l’Italia risultavano “proposti” 10 reattori per un totale di 17.000 MW. Sapevamo dei 4 reattori EPR dell’accordo italo-francese piuttosto futuribile, ma, almeno nel nostro Paese di 10 reattori proposti non ce n’era traccia, se si esclude quel 25% da produzione nucleare immaginata per il futuro energetico dell’Italia dal preveggente ministro Scajola. Certo, se le tabelle del WEC fossero costruite a partire da affermazioni di principio come queste (senza piani industriali) non avrebbero molta credibilità.
Fukushima un anno dopo: ancora oltre 100 mila persone evacuate, una superficie contaminata pari a mezza Sicilia, stime dei danni da compensare che oscillano dai 75 ai 260 miliardi di dollari, dei quali solo poco più di 3,8mld sono stati già pagati (di cui solo 1,6 coperti da assicurazione). Se si includono anche i costi della bonifica e smantellamento dei 6 reattori di Fukushima Daichi, si sale a una stima tra 500 e 650 miliardi di dollari. Una situazione dei reattori ben lontana dall’essere definita “in sicurezza” come le autorità vogliono far credere.
Cosa dunque rimane a un anno dall’incidente? La credibilità residua dell’industria nucleare è evaporata a seguito delle tre esplosioni di Fukushima. Non solo perché il fondamento probabilistico della sicurezza nucleare si è rivelato infondato – per i reattori di 2° generazione: 1 incidente grave ogni 100 mila anni-reattore, ne abbiamo avuti 3 con 14 mila anni-reattore – ma anche perché si è mostrato, in modo assolutamente inconfutabile, che la sicurezza nucleare è un mito.
La valutazione di un incidente grave – a seguito di un black out – a un BWR è stata condotta dall’OakRidgeLaboratories nel 1985 sul reattore di Browns Ferry in Alabama. La fusione del nocciolo era prevista dopo 13 ore di assenza di corrente d’emergenza ai sistemi di raffreddamento. Questo rapporto fu trasmesso all’autorità di sicurezza giapponese nel 1990, ma lo scenario di un black-out così lungo veniva giudicato impossibile per il Giappone.
Stessa cosa per il rischio tsunami. Poca attenzione al fatto che un evento del genere avviene in Giappone circa ogni mille anni. Le simulazioni al computer condotte nel 2008 mostrarono come la valutazione del rischio tsunami era stata largamente sottostimata. Nessuna azione per modificare la situazione: i risultati furono consegnati alla NISA – agenzia di sicurezza nucleare giapponese – il 7 marzo 2011, quattro giorni prima dell’incidente, senza che succedesse nulla. Eppure le cose da fare non erano drammaticamente complicate – spostare i generatori d’emergenza più in alto; adottare connessioni stagne tra i generatori e i sistemi di sicurezza; aumentare la protezione delle pompe che portavano l’acqua del mare agli scambiatori di calore – ma non furono mai fatte.
Come descritto nel rapporto di Greenpeace, “Lessons from Fukushima”, l’incidente ha mostrato un fallimento completo delle istituzioni preposte alla sicurezza nucleare, nel Paese industrializzato con la maggiore cultura della sicurezza. Ad esempio la gestione dell’emergenza secondo uno schema di cerchi concentrici, si rivelava assai discutibile: Greenpeace dimostrò in quei giorni come Itate, un villaggio al di fuori dell’area di evacuazione, era molto contaminato tanto da dover essere evacuato.
Se oggi sono in funzione solo 2 dei 54 reattori, tra due mesi in Giappone non ci sarà alcun reattore funzionante, essendo tutti in manutenzione straordinaria e in revisione, con i governi delle principali città che chiedono di non riaprire i reattori più vicini. Questa situazione – ben gestita anche grazie a misure di razionalizzazione ed efficienza, oltre che con un aumento del consumo di gas – dimostra che una chiusura del nucleare è tecnicamente fattibile. Il potenziale di efficienza e rinnovabili in Giappone è ampio e consentirebbe di sostituire progressivamente l’energia prodotta dal nucleare, come dimostrato nel rapporto Energy [R]evolution Japan. Oggi forse quello scenario sembra più realizzabile di un anno fa.
di Giuseppe Onufrio – Direttore Greenpeace Italia