Rinnovabili •

La conferenza nel carbone

La conferenza nel carbone

 

 

(Rinnovabili.it) – L’anidride carbonica è un gas pericoloso per i pianeti. Nell’atmosfera di Venere ce n’è troppa e la superficie della “stella della sera e del mattino”, com’era poeticamente ed erroneamente definita, è purtroppo inavvicinabile, con temperature dell’ordine di 460 gradi, capaci di distruggere ogni possibile forma di vita, e persino i pochi strumenti che siamo riusciti a spedire fin là per studiarla scientificamente.

Il punto è che la CO2, del tutto invisibile ai nostri occhi, risulta opaca all’infrarosso, ossia assorbe l’energia radiante che dalla superficie dei pianeti tenta di raggiungere lo spazio. Più CO2 c’è nell’atmosfera, più il pianeta “fatica” a raffreddarsi, processo indispensabile per compensare il continuo flusso di energia solare che lo raggiunge in ogni istante. Tra l’energia in arrivo e quella in uscita deve esserci equilibrio, ma il punto di equilibrio si sposta verso temperature crescenti via via che la CO2 aumenta. E’ la sostanza dell’effetto serra, di cui l’anidride carbonica è protagonista, insieme ad altri componenti della piccola famiglia dei “gas serra”.

 

Nell’atmosfera terrestre fino a qualche secolo fa di anidride carbonica ce n’erano appena 280 parti per milione, o se preferite lo 0,000280 %, un livello che sicuramente non era mai stato superato negli ultimi 800mila anni, come testimoniano i ghiacci dell’Antartide, vero e proprio registro dei mutamenti climatici naturali avvenuti nella storia geologica recente del nostro pianeta, caratterizzata da almeno otto ere glaciali e altrettanti disgeli.

L’umanità si è quindi sviluppata in un’atmosfera molto diversa da quella odierna, dove purtroppo il livello del gas è ormai a 410 ppm, con un aumento impressionante sia per le dimensioni che per la velocità con cui si è manifestato.

Un aumento che allarmò anche il chimico americano Charles Keeling, ideatore del primo laboratorio dove l’anidride carbonica atmosferica viene misurata con continuità dal 1958, collocato strategicamente nel bel mezzo dell’oceano Pacifico, alle isole Hawaii, non lontano dallo strano vulcano Mauna Loa, dove la lava forma un vasto lago.

 

I suoi dati sono accessibili in Internet e hanno ricevuto innumerevoli conferme (una stazione di misura simile a quella hawaaiana esiste da qualche decennio anche in Italia, sulla vetta del monte Cimone in provincia di Modena). Essi ci confermano che ogni anno la CO2 cresce di circa 2 ppm, con un’accelerazione che potrebbe portarci rapidamente a livelli di 600 o 700 ppm a fine secolo, ossia a livelli da Giurassico, periodo in cui il mondo era caldissimo, ben poco adatto alla nostra agricoltura, e molto adatto ai sauri.

 

Come tutti sanno questa crescita innaturale della concentrazione atmosferica di anidride carbonica è dovuta all’uso smodato che l’umanità fa di combustibili fossili, estratti dal sottosuolo in forma solida (carbone), liquida (petrolio) e gassosa (metano) e tutti dotati della spiacevole caratteristica di emettere molta (troppa) CO2 quando vengono bruciati. Ricordo che ogni giorno vengono consumati sul pianeta quasi 100 milioni di barili di petrolio, per non parlare del resto.

 

La Polonia, per esempio, è un paese “fatto” di carbone, i polacchi passeggiano su enormi giacimenti fossili e fanno uso di questo nero minerale per procurarsi quasi tutta la propria energia elettrica.

E guarda caso è proprio in Polonia, nella città mineraria di Katowice, che nelle ultime due settimane si è svolta l’ennesima conferenza climatica mondiale, la cosiddetta conferenza delle parti, o COP24, ossia delle nazioni di tutto il mondo, impegnate nel trattato globale sul clima noto come Accordo di Parigi, siglato in pompa magna nel 2015 in una capitale francese così diversa da quella di oggi, invasa ogni settimana dalle proteste dei “giubbetti gialli”.

L’Accordo prevede un impegno globale a tagliare drasticamente fino ad annullare le emissioni di carbonio entro metà secolo proprio per scongiurare quel “ritorno al Giurassico” di cui sopra. Ma tagliare le emissioni di carbonio significa decidere di lasciare le fonti fossili dove sono, ovvero sottoterra, e sostituirle in toto con fonti pulite come il sole e il vento, capaci di darci tutta l’energia che ci serve senza bruciare alcunché.

 

Ma, si sa, tra il dire e il fare… ci sono di mezzo enormi interessi economici. Prendiamo l’Italia, dove opera il gigante del petrolio e del gas che chiamiamo Eni. Dobbiamo immaginare che questa grande azienda operante sul mercato globale decida, o venga costretta, a dirottare le proprie competenze verso il settore delle rinnovabili, riconvertendosi e per esempio trasformando la propria rete di distributori di carburante in piattaforme per la ricarica rapida di auto elettriche.

Nel caso dell’Eni, dove molto capitale è pubblico, questa gigantesca trasformazione potrebbe magari svolgersi abbastanza in fretta, sotto la guida di una qualche sapiente manovra governativa. Nel caso delle restanti “sette sorelle” del petrolio, al di là dell’assenso alle recenti e importantissime raccomandazioni papali, non possiamo immaginare altro che l’azione di una robusta “tassa sul carbonio”, proprio quella che da settimane ha messo in subbuglio la Francia (non si devono fare questi cambiamenti senza coinvolgere le forze sociali e senza tavoli di mediazione, pena reazioni inconsulte come quelle cui assistiamo).

 

Secondo la BBC, che segue questa materia con grande attenzione e competenza, la COP24 di Katowice ha raggiunto il proprio scopo ed è stata un successo, come dimostra il vero e proprio salto di gioia fatto dal ministro polacco che la presiedeva. Lo scopo era quello di passare dalle parole dell’accordo ai fatti, anzi a un sistema trasparente di verifica dei fatti, ovvero dei tagli alle emissioni che i paesi dovranno effettuare nei prossimi anni e decenni.

Sia la Cina che gli Usa si sono impegnati ed è in pratica finita la diatriba tra paesi “colpevoli e innocenti” che per anni ha tenuto in scacco le trattative climatiche. Tutti i grandi emettitori devono tagliare, compresa l’Europa, che su queste questioni comunque è da molti anni impegnata in prima fila come dimostrano le recenti decisioni in materia climatica. Tutti i paesi del mondo dovranno fornire rapporti regolari sulle misure prese e sui risultati ottenuti e chi non lo fa subirà un’inchiesta.

 

Anche la scienza è stata presa più sul serio di quanto non apparisse la settimana scorsa, quando un quartetto di paesi (Usa Russia Kuwait e Arabia) si era rifiutato di “accogliere” il nuovo allarmante rapporto Ipcc dello scorso ottobre e voleva limitarsi solo a “prenderne atto”: il testo finale riconosce l’importanza del grande organismo scientifico volontario che regolarmente fornisce alla politica le informazioni chiave su quel che sta accadendo e potrebbe accadere al clima della Terra.

 

E’ bene ricordare comunque che ad oggi l’accordo di Parigi non è ancora operante, esso verrà messo in funzione dal 2020 con la COP26, che potrebbe svolgersi in Italia, se la candidatura avanzata dal nostro governo tramite il ministro dell’ambiente Costa verrà accolta.

L’Italia comunque deve fare moltissimo per avviarsi sulla strada di Parigi: ricordiamoci che su ogni cittadino in media gravano 7 tonnellate di CO2 equivalente all’anno e che dovremo dimezzare varie volte questo valore nei prossimi decenni. Ma anche su questo ci sono differenze fortissime tra il nord ricco e industrializzato e il sud sempre in gravi difficoltà economiche e sociali. Magari anche per il nostro paese servirebbe una sorta di trattato interno tra regioni e governo per avviarci a uno sviluppo pulito e a un’indispensabile ed equa transizione energetica. Siamo o non siamo il Paese del Sole?

 

Sono comunque i più giovani i più interessati a una effettiva e rapida trasformazione energetica planetaria dato che molti di loro nel 2100 saranno ancora vivi, ma come ha detto la quindicenne attivista svedese Greta Thunberg a Katowice “Non risolveremo questa crisi climatica se non la tratteremo come tale” ovvero direi con la stessa urgenza con cui si tratta un malato in corsia di emergenza.

 

di Vittorio Marletto – ARPAE Emilia-Romagna