(Rinnovabili.it) – Sono passati dieci anni da quando è divenuta pubblica la grave contaminazione da PFAS di vaste aree del Veneto: in questi dieci anni molte delle famiglie residenti nella zona rossa hanno denunciato l’impossibilità di accedere ad acqua potabile richiedendo interventi di bonifica, oltre che di tutela sanitaria.
Greenpeace ha ripreso il tema, denunciando le gravi condizioni in cui versano i residenti, a partire dal reportage previsto sull’ultimo numero de L’Espresso, che racconta la storia di Antonietta, una cittadina di Lonigo, in provincia di Vicenza, e della sua famiglia, esposti alla contaminazione e ai suoi impatti ambientali e sanitari senza alcun intervento politico. Con loro, almeno 18mila residenti: tutti senza accesso diretto ad acqua pulita, tutti non allacciati alla rete di acquedotti pubblici.
«Quella di Antonietta e della sua famiglia è una storia inaccettabile, anche alla luce delle dichiarazioni delle istituzioni regionali, che affermano di aver fatto tutto il possibile per proteggere la cittadinanza dall’inquinamento – la denuncia arriva da Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace Italia – Nonostante la contaminazione sia nota da anni, della bonifica del sito di Miteni si sono perse le tracce così come di un piano di riconversione industriale per azzerare tutte le fonti inquinanti. L’inerzia istituzionale prosegue anche sul fronte della sicurezza degli alimenti: come è possibile che dopo quasi dieci anni non abbiamo ancora un quadro chiaro ed esaustivo sulla contaminazione dei prodotti di origine animale e vegetale provenienti dalle zone inquinate?».
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In Vento la contaminazione da PFAS ha ricadute su molti ambiti del quotidiano
In Veneto la contaminazione da PFAS non ha ricadute “soltanto” sull’accesso all’acqua pulita ma si estende a innumerevoli ambiti: le famiglie residenti in zona rossa non possono coltivare e nutrirsi di quanto prodotto a casa propria. Tutte le tradizionali raccomandazioni volte alla tutela ambientale sono rovesciate: non si può mangiare a km 0, non è contemplabile bere l’acqua del rubinetto di casa. Antonietta, la protagonista del reportage del settimanale, ha fatto analizzare l’acqua di casa propria e ha rivelato i risultati: 3.700 nanogrammi per litro di PFAS, di cui 1.600 di PFOA.
Queste sostanze sono entrate in molte delle sfere della vita dei cittadini veneti: sono nelle loro tubature di casa, nella frutta e nella verdura che coltivano, e anche nei loro corpi. Le analisi del sangue effettuate dal figlio di Antonietta, nel 2021, hanno mostrato una crescita della loro concentrazione nell’organismo rispetto a quanto riscontrato solo nel 2017.
Sara Valsecchi, ricercatrice del CNR, nel 2008 ha scoperto per prima, insieme al suo tema, la contaminaqzione da PFAS in Veneto e, secondo quanto riportato dalla ong, ha dichiarato: «Le analisi mostrano una presenza totale di Pfas superiore ai 6.200 nanogrammi per chilo nel terreno (6,2 microgrammi per chilo espressi in peso secco). Si tratta di concentrazioni che indicano una contaminazione ambientale diffusa e storica, che continua a causa dell’uso di acqua contaminata. Poiché la famiglia beve acqua in bottiglia da molti anni significa che è esposta a queste sostanze in un altro modo: calpestano Pfas, probabilmente li respirano con la polvere e quando c’è nebbia, e sicuramente li mangiano dai prodotti del loro orto».