Messo a punto un metodo di estrazione e identificazione delle microplastiche in grado di misurarne la quantità in maniera più rapida dei processi attuali
(Rinnovabili.it) – Un campione d’acqua proveniente dall’Oceano Indiano tropicale è stato analizzato con nuove tecniche di estrazione e identificazione di microplastiche, in grado di ridurre i tempi d’analisi senza perdere la precisione. Si tratta di un’innovazione notevole, perché uno dei problemi più gravi connessi a queste particelle è proprio l’elevato tasso di errore nella misurazione.
Il nuovo metodo, denominato Laser Direct Infrared (LDIR) Chemical Imaging, elimina i componenti interferenti all’interno campione con un numero di passaggi di lavoro inferiore rispetto ad altre tecniche, grazie a una serie di reazioni chimiche ed enzimatiche. La caratterizzazione chimica delle microplastiche si basa sulla capacità di assorbimento di luce infrarossa.
Il protocollo è stato sviluppato dal Dipartimento di Chimica Ambientale Inorganica dell’Istituto di Ricerca Helmholtz-Zentrum Hereon, sotto la direzione del Dr. Daniel Pröfrock.
Il secondo autore dello studio, il Dr. Lars Hildebrandt, ha spiegato: “In questo studio, il dispositivo, che utilizza un cosiddetto laser a cascata quantistica, ha dimostrato i suoi vantaggi nell’analisi delle particelle microplastiche in campioni ambientali. È veloce e automatizzabile, che è importante per una futura procedura standard”.
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Le microplastiche nelle acque dell’Oceano Indiano
Una ampia parte dei rifiuti in plastica nel mondo viene esportata nei Paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano. I modelli elaborati a partire dal 2017 stimano che ogni anno sono circa 5 milioni le tonnellate di plastica scaricate in mare da Cina e Arcipelago Indonesiano.
Nel campione analizzato, proveniente dalle acque superficiali dell’Oceano Indiano Tropicale, è stata trovata una concentrazione media di 50 microplastiche e fibre per metro cubo. Si tratta di una quantità che ha sorpreso gli scienziati perché particolarmente elevata, trattandosi di oceano aperto.
Tra le microparticelle più comuni reperite ci sono le vernici (49%), probabilmente derivanti dalle pitture navali; al secondo posto il PET (25%). Si tratta della plastica utilizzata per i capi di abbigliamenti sintetici come il poliestere e per le bottiglie per bevande: in genere si disperde nell’ambiente attraverso il lavaggio dei vestiti o la frammentazione delle bottiglie dovute da sollecitazioni meccaniche o radiazioni solari.
Fadi El Gareb, il coautore dello studio, ha spiegato: “I nostri risultati mostrano che molte particelle microplastiche, come il polipropilene, il polistirene e il polietilene, sono state frammentate dalla terra all’oceano aperto. Così, sono ancora più facilmente ingeriti dagli organismi. Attraverso lo stretto della Sonda, uno stretto tra Sumatra e Giava, una gran parte dei rifiuti di plastica trovati potrebbe essere entrata nell’Oceano Indiano, rendendolo un punto caldo in termini di inquinamento microplastico.”.
Estendere questo metodo agli altri oceani
Gli autori sono adesso interessati ad applicare lo stesso metodo di ricerca e quantificazione delle microplastiche anche agli altri oceani. Il dottor Tristan Zimmermann, dell’Istituto di chimica ambientale costiera, ha già campionato alcune parti dell’Atlantico settentrionale nell’ambito di un altro studio, e ha intenzione di continuare: “Il prossimo agosto – ha raccontato – proveremo le acque artiche sulla costa orientale della Groenlandia durante una crociera con la nave di ricerca MARIA S. MERIAN. Qui, la base di dati per quanto riguarda le particelle microplastiche è ancora molto insufficiente”. La ricerca è stata pubblicata su Environmental Pollution.