Regna lo stallo nei negoziati sul deep sea mining, ma nel 2025 si attende il codice minerario che dovrebbe regolare le miniere sottomarine
I pericoli di distruzione degli ecosistemi marini rallentano i negoziati sul deep sea mining
Lo scorso venerdì, in Giamaica, si è conclusa la 29esima sessione dell’International Seabed Authority, vertice in cui i negoziati sul deep sea mining hanno tenuto banco. Molto acceso il dibattito fra i paesi membri di questa autorità intergovernativa, che ha il potere di legiferare sulle acque internazionali. Un potere conferitole dalla Convenzione ONU sul diritto del mare (UNCLOS), ma che sta diventando sempre più uno spazio in cui si decide lo sfruttamento industriale di queste aree.
Preoccupazione per gli impatti delle miniere sottomarine
Da anni il tema delle miniere a mare aperto scala posizioni nell’agenda politica internazionale. Con i fari delle organizzazioni ambientaliste e in difesa dei diritti umani puntati addosso, infatti, le grandi imprese minerarie sono in sofferenza. A questo si aggiunge la crescente difficoltà a sfruttare i suoli del pianeta. Prima di trovarsi a raschiare il barile, le aziende vogliono assicurarsi un piano B. E per questo puntano sugli oceani. Sono supportate da molti governi, che vedono nei fondali marini un tesoro inesplorato di minerali rari, capace di fornire autonomia strategica e minore dipendenza dai paesi detentori delle materie prime.
Ma raccogliere da chilometri di profondità noduli polimetallici e incrostazioni di nichel, cobalto o rame lungo le faglie della crosta terrestre non è un’attività sostenibile. Necessita di grandi capitali e macchine impattanti, che possono sconvolgere per sempre ecosistemi delicati e parzialmente sconosciuti.
Per questo, i negoziati sul deep sea mining non stanno trovando soluzione. Ben 32 nazioni hanno richiesto una moratoria sull’estrazione mineraria in alto mare la scorsa settimana a Kingston. Una coalizione che cresce di anno in anno. Tra i nuovi oppositori ci sono Tuvalu, Austria, Honduras, Guatemala e Malta. Secondo Greenpeace, l’Italia, tradizionalmente pro-industria, ha adottato un approccio più cauto. Secondo una nota dell’associazione, il nostro paese avrebbe sostenuto “la necessità di definire un codice minerario prima di iniziare le attività estrattive negli abissi marini”.
La data limite per regolamentare il deep sea mining
Al momento c’è solo una bozza, che non consente ancora il rilascio di licenze. La discussione nei negoziati non può più ignorare le richieste di valutazione di impatto preventiva. Ma la moratoria è fortemente contrastata da alcuni governi. Numerose delegazioni, dalla Cina all’Arabia Saudita, fino al gruppo africano, hanno affermato che l’assemblea plenaria dell’ISA non è il foro competente per prendere decisioni sulla protezione degli habitat marini. Vogliono che la decisione sia presa dal Consiglio dell’autorità, composto da appena 36 paesi. Dopo dieci anni di negoziati, entro il 2025 si attende l’approvazione del codice minerario. Intanto, estrazioni pilota vengono già fatte nella Clarion-Clipperton Zone, in mezzo al Pacifico, in deroga a tutte le norme. Una speranza che i fondali vengano protetti dalla nuova industria estrattiva risiede nell’elezione della brasiliana Leticia Carvalho come Segretaria generale dell’ISA da gennaio 2025. Il Brasile è infatti tra i paesi che spingono per una moratoria.