Il riutilizzo delle acque reflue trattate è una pratica virtuosa dal punto di vista ambientale ma un recente studio americano ha mostrato che il trattamento non garantisce che nelle acque non permangano PFAS, che spesso arrivano così sulle colture e nella nostra catena alimentare.
(Rinnovabili.it) – Uno studio americano ha dimostrato che spesso i PFAS sopravvivono al trattamento delle acque reflue e, tramite il riutilizzo di queste ultime, si insediano nella nostra catena alimentare.
La ricerca, pubblicata sull’Agronomy Journal e finanziata dal Penn State Office of the Physical Plant, dall’USDA Agricultural Research Service, dall’U.S. Environmental Protection Agency, dall’USDA National Institute of Food and Agriculture e dal Penn State Institutes of Energy and the Environment, pone seri interrogativi sull’utilizzo di una pratica universalmente ritenuta virtuosa.
“I PFA sono così pervasivi e persistenti che sono stati trovati nell’ambiente in tutto il mondo, anche in luoghi remoti”, ha detto Heather Preisendanz, professore associato di ingegneria agricola e biologica presso Penn State. “Sfortunatamente, questi composti hanno dimostrato di avere un impatto negativo sulla salute ecologica e umana, in particolare perché possono bioaccumularsi lungo la catena alimentare e influenzare lo sviluppo nei bambini, aumentare il rischio di cancro, contribuire a livelli elevati di colesterolo, interferire con la fertilità delle donne e indebolire il sistema immunitario”.
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Come i PFAS entrano nella nostra catena alimentare
Per l’ampia e diffusa varietà di usi che c’è stata di queste sostanze, i PFAS si sono fatti largo negli impianti di trattamento delle acque reflue. La pratica del riutilizzo di queste ultime prevede di usarle per l’irrigazione. In questo modo, ha spiegato Preisendanz, il suolo funge da ulteriore filtro per lo scarico dei Forever Chemicals verso le acque di superficie. Il problema si pone perché le acque da irrigazione trasportano i PFAS sui prodotti che poi entrano nella nostra catena alimentare e non sappiamo con certezza quali effetti questi potrebbero avere. “I PFAS hanno dimostrato di essere assorbiti dalle colture e di entrare nella catena alimentare quando le colture vengono consumate, quindi quando le acque reflue trattate vengono utilizzate per le attività di irrigazione nei campi agricoli, capire quanto incidano è di fondamentale importanza“, ha spiegato la ricercatrice.
La ricerca ha analizzato la concentrazione di PFAS nelle acque destinate a un impianto di recupero ogni sue mesi, dall’autunno del 2019 all’inverno del 2021, monitorandole prima e dopo il trattamento. Visto che le acque erano usate per irrigare i campi circostanti, il team ha studiato anche i tessuti delle piante ivi coltivate, rilevando la presenza di 10 tipi di PFAS con concentrazioni medie di 88 nanogrammi per litro negli affluenti delle acque e fino a 155 ng/L nelle acque a valle.
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Le conclusioni dello studio mostrano come le sostanze siano diffuse praticamente ovunque, a livelli maggiori verso le acque sotterranee: “Questo suggerisce che i PFAS possono entrare nella catena alimentare quando con queste colture viene alimentato il bestiame,” ha aggiunto Preisendanz, sottolineando come sia urgente quindi monitorare anche bestiame, carne e prodotti lattiero-caseari.
“La United States Environmental Protection Agency ha recentemente pubblicato avvisi sanitari aggiornati per due dei più importanti PFAS – PFOA (acido perfluorooctanoico) e PFOS (acido perfluorooctanesulfonico) – in modo tale che ‘qualsiasi livello rilevabile è considerato un rischio per la salute umana’” ha detto. “Questo presenta potenziali sfide per il riutilizzo benefico delle acque reflue.”