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In vent’anni le microplastiche del Mediterraneo sono triplicate

Una ricerca dell’Università Autonoma di Barcellona e dell’Università di Aalborg in Danimarca ha documentato l’accumulo di microplastiche nel Mediterraneo scoprendo, tra le altre cose, che negli ultimi vent’anni la loro presenza nel Mare Nostrum è triplicata

microplastiche mediterraneo
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(Rinnovabili.it) – L’inquinamento da microplastiche nei mari di tutto il mondo è un fatto ormai accertato e ben documentato dalla letteratura scientifica, ma il comportamento di queste particelle quando si depositano in fondo al mare è ancora poco noto. Uno studio dell’Università Autonoma di Barcellona e dell’Università di Aalborg in Danimarca si è concentrato sulle microplastiche presenti sul fondo del Mar Mediterraneo e ha scoperto che la loro quantità è triplicata in poco più di vent’anni.

Gli esiti della ricerca sono una vera e propria macchina del tempo perché è stato possibile, attraverso l’indagine, monitorare l’accumulo delle microplastiche nel corso dei decenni: “[la ricerca] Ci ha permesso di vedere come, dagli anni ’80, ma soprattutto negli ultimi due decenni, è aumentato l’accumulo di particelle di polietilene e polipropilene da imballaggi, bottiglie e film alimentari, così come il poliestere da fibre sintetiche nei tessuti di abbigliamento,” ha spiegato Michael Grelaud, autore dello studio.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Environmental Science and Technology.

Lo studio delle microplastiche nel Mediterraneo

La letteratura scientifica è già giunta ad alcune importanti conclusioni sul comportamento delle microplastiche negli ambienti marini. Abbiamo ad esempio scoperto che, a causa delle valanghe sottomarine, le particelle tendono a sedimentarsi nell’oceano profondo ed accumularsi, così sappiamo che le trincee marine possono intrappolarne importanti quantità. Uno studio del 2020 ha individuato nel Mar Mediterraneo un punto di accumulo con la più alta concentrazione di microplastiche mai vista sul fondo marino. 

Ultima in ordine di tempo, la ricerca delle Università di Barcellona e  Aalborg ha studiato le dinamiche che portano le particelle di plastica ad affondare e arrivare sul fondo marino, e quali conseguenze ne derivano. 

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Una vera e propria macchina del tempo

Lo studio ha analizzato una serie di sedimenti raccolti nel Mediterraneo occidentale con una tecnologia di imaging che consente di analizzare microplastiche e oggetti piccoli fino a 11 micrometri. L’indagine ha rivelato che, una volta raggiunto il fondale, le particelle si accumulano e conservano. L’ipotesi degli scienziati è che la degradazione non avvenga a causa della mancanza di erosione, di ossigeno e luce.

“Il processo di frammentazione avviene principalmente nei sedimenti della spiaggia, sulla superficie del mare o nella colonna d’acqua”, ha spiegato Patrizia Ziveri, un’autrice dello studio,  “Una volta depositato, il degrado è minimo, quindi le materie plastiche degli anni ’60 rimangono sul fondo del mare, lasciando lì la firma dell’inquinamento umano.”

Dall’analisi dei sedimenti prelevati gli scienziati hanno potuto ripercorrere a ritroso i decenni che hanno visto la commercializzazione delle plastiche: le microplastiche intercettate vengono dal passato, i residui più vecchi risalgono addirittura al 1965, i più recenti sono quelli che produciamo oggi. La loro presenza nel Mediterraneo, a partire dal 2000, è triplicata. E resteranno a lungo sul fondo del nostro mare, a ricordarci che quello che facciamo su questo pianeta ha conseguenze che vanno molto oltre l’esistenza nostra e delle nostre società.