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Il legame tra l’inquinamento dell’aria e le malattie mentali

Inquinamento dell’aria: come aumenta il rischio di sviluppare malattie mentali
Foto di Pexels da Pixabay

Basta un aumento minimo dell’inquinamento dell’aria per far impennare i rischi

(Rinnovabili.it) – Anche un piccolo aumento dell’inquinamento dell’aria fa impennare il rischio di avere malattie mentali. Sia con lo sviluppo di patologie più gravi che richiedono l’ospedalizzazione (+18%), sia con la crescita del bisogno di cure ambulatoriali e di quelle fornite dai servizi sociali (+32%). Lo rivela uno studio pubblicato sul British Journal of Psychiatry che si basa sull’analisi di 13mila persone nell’area di Londra, ma i cui risultati sono ritenuti validi per qualsiasi area metropolitana dei paesi a economia avanzata, Italia inclusa.

Sotto la lente finiscono soprattutto i NOx, gli ossidi di azoto che sono spesso legati al traffico veicolare e in particolare sono emessi dai veicoli a diesel. Rispetto ai livelli di base della capitale inglese, che oscillano tra i 18 e i 96 microgrammi per metro cubo (µg/m3), basta l’esposizione a livelli di inquinamento più elevati di 15 µg/m3 per far scattare l’aumento di probabilità.

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Ma non sono soltanto i NOx a sostanziare il legame tra inquinamento dell’aria e malattia mentale. Ci sono correlazioni significative anche per altri inquinanti, rivela lo studio. A partire dal particolato più sottile, quello prodotto dalla combustione delle fossili. Sempre nel caso londinese, i livelli variano da 9 a 25 µg/m3 e basta un’esposizione di 3 unità in più per far crescere il rischio di ricovero ospedaliero dell’11% e il rischio di trattamento ambulatoriale del 7%.

Tra i risultati più significativi della ricerca spicca l’assenza di una soglia limite. È indifferente se i valori dell’inquinamento dell’aria sono verso la parte alta o quella bassa della forchetta mediana. In ogni caso, un minimo aumento come quelli descritti fa sempre aumentare il rischio di decine di punti percentuali.

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“L’inquinamento atmosferico è modificabile e anche su larga scala, riducendo l’esposizione a livello di popolazione”, ha affermato Joanne Newbury dell’Università di Bristol, che ha guidato la ricerca. “Sappiamo che ci sono interventi utilizzabili, come l’ampliamento delle zone a bassa emissione”.

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