Secondo una ricerca, occorre ampliare l’area di monitoraggio dell’inquinamento da PFAS
(Rinnovabili.it) – L’inquinamento da PFAS e i rischi ad esso connessi tornano nuovamente sotto i riflettori del mondo scientifico. Un nuovo studio (testo in inglese), condotto dall’Ohio State University e dal Research Triangle Park, negli USA, ha scoperto infatti che questi composti chimici si disperdono molto più facilmente di quanto si pensasse in passato.
I PFAS (o sostanze perfluoroalchiliche) sono una famiglia di molecole organiche usate fin dagli anni ’50 in numerosissime applicazioni industriali e prodotti di largo consumo. Si va dai detergenti agli insetticidi, dalle vernici all’abbigliamento, dalle schiume antincendio ai rivestimenti dei contenitori alimentari. Il loro impiego si è diffuso a tal punto da riuscire a contaminare qualsiasi ecosistema, persino i ghiacci artici. E a causa della loro eccezionale stabilità chimica, queste sostanze possono persistere nell’ambiente per lunghi periodi di tempo. A risentirne sono soprattutto gli organismi viventi, uomo compreso. Se ingeriti, infatti, i PFAS non vengono metabolizzati dall’organismo, ma si accumulano negli organi, provocando alterazioni importanti.
Le molecole più utilizzate e studiate di questa famiglia sono l’acido perfluoroottanoico (PFOA) e l’acido perfluoroottansolfonico (PFOS), ma negli ultimi anni l’industria sta introducendo come alternative nuovi PFAS con minori probabilità di bioaccumulo. Uno di questi è l’HFPO-DA o “acido 2,3,3,3-tetrafluoro-2-(eptafluoropropossi)-propanoico”, di cui attualmente, però, poco si conosce in termini di tossicità e impatto ambientale.
Alcuni dati in più arrivano oggi dal nuovo studio statunitense. Il team di scienziati voleva valutare l’impatto ambientale su ampia scala di un impianto di produzione di fluoropolimeri a Parkersburg, in West Virginia. Una scelta non casuale dal momento che, nel 2013, la struttura in questione ha sostituito il PFOA (utilizzato per oltre 60 anni nella sintesi dei fluoropolimeri) con l’HFPO-DA. Il gruppo ha indagato anche la dispersione ambientale del nuovo acido, per la quale ad oggi sono disponibili pochissime informazioni.
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Per farlo sono stati raccolti campioni di acqua superficiale, acqua potabile e terreno sia in prossimità che lontano dall’impianto. L’analisi ha mostrato come i composti inquinanti si siano dispersi nelle acque superficiali e nel suolo fino a circa 50 km dalla struttura. Ma c’è di più. Un ruolo chiave nella dispersione, infatti, è stato svolto dal trasporto atmosferico: i venti hanno diffuso lontano dall’impianto l’inquinamento da PFAS. Questi risultati indicano come gli inquinanti potrebbero arrecare danno anche in aree non sottoposte ai controlli richiesti.
Per monitorare al meglio l’estensione dell’inquinamento da PFAS, il gruppo di ricerca ritiene fondamentale aumentare le zone di monitoraggio, sia del suolo, sia delle acque.
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