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Deepwater Horizon: è peggiore di quanto si pensasse

Deepwater Horizon
Credits: SusuMa da Pixabay

Uno studio dell’Università di Miami scopre che lo sversamento della Deepwater Horizon nascondeva una fuoriuscita invisibile ai satelliti.

 

(Rinnovabili.it) – L’affondamento della piattaforma petrolifera BP Deepwater Horizon è stato uno dei più devastanti disastri ambientali della storia dell’umanità. Ad aprile 2010, a seguito di un’esplosione, l’impianto di trivellazione della British Petroleum è affondato al largo del Golfo del Messico, lasciando così aperto un pozzo di petrolio a circa 1500 metri di profondità: 5 milioni di barili di petrolio grezzo si riversarono sulle spiagge della Florida, ancora oggi disseminate di agglomerati oleosi di petrolio grezzo che potrebbero impiegare 30 anni prima di decomporsi completamente.

 

A peggiorare ancora di più i contorni di una situazione già drammatica, arriva uno studio dell’Università di Miami, secondo cui lo sversamento di petrolio del Deepwater Horinzon andò ben oltre i confini della macchia rilevata tramite immagini satellitari. Combinando tecniche di modellazione del trasporto di petrolio con dati di telerilevamento e campionamento dell’acqua, i ricercatori hanno tentato di fornire una visione completa della fuoriuscita di petrolio, i cui risultati hanno mostrato che una frazione della fuoriuscita era del tutto invisibile ai satelliti.

 

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Le chiazze di petrolio dovute all’esplosione della Deepwater Horizon coprivano un’area stimata di 149.000 km2. Ma attraverso le nuove analisi, pubblicate su Science Advances, si è visto come la fuoriuscita fosse in realtà maggiore rispetto a quella determinata tramite l’impronta satellitare, raggiungendo le coste del Texas. “I nostri risultati cambiano le percezioni sulle conseguenze delle fuoriuscite di petrolio, dimostrando che il petrolio tossico può essere invisibile ed estendersi oltre l’impronta satellitare, con concentrazioni potenzialmente letali su una vasta gamma di animali selvatici nel Golfo del Messico”, ha affermato Claire Paris, professore di scienze oceaniche all’Università di Miami.

 

Il lavoro dei ricercatori, dunque, ha l’importante merito di aver aggiunto una ‘terza dimensione’ a ciò che in precedenza era visto come un fenomeno che interessava solo la superficie delle acque. “Questa dimensione”, ha aggiunto Paris, “è stata visualizzata grazie a modelli di fuoriuscita più realistici e accurati, sviluppati con un team di ingegneri chimici e risorse di elaborazione più efficienti”.

 

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