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Acque contaminate, come difendersi dagli PFAS? Con gli elettroni

come difendersi dagli PFAS
Foto di Snap_it da Pixabay

(Rinnovabili.it) – Come difendersi dagli PFAS, tra le sostanze inquinanti più diffuse al mondo? I composti organici altamente fluorurati sono purtroppo caratterizzati da una presenza quasi ubiquitaria Si trovano infatti in gran parte dei prodotti di uso quotidiano – dai cosmetici alle padelle antiaderenti – nelle schiume antincendio, nei detergenti per la casa, nei  tessuti impermeabili e in molti materiali edili. La banca dati di OCSE ha censito ben 4.700 molecole diverse rientranti in questo gruppo. E tutti dotati di una particolare persistenza ambientale come ha dimostrato l’Agenzia europea per l’ambiente. Da uno suo rapporto del 2020 è emerso che le acque, il suolo e il sangue dei cittadini europei contengono oggi quantità preoccupanti di PFAS.

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Ad oggi tuttavia non sono ancora stati individuati strumenti efficaci per proteggere la popolazione dalla contaminazione. Le tradizionali tecnologie di depurazione delle acque basate sulle resine a scambio ionico o carboni attivi si sono rivelate inefficaci e costose. Una soluzione arriva ora dal Centro ENEA di Bologna. Qui gli scienziati stanno lavorando su una tecnologia in grado di rimuovere i PFAS dalle acque per uso civile.

“Queste sostanze chimiche sono altamente solubili in acqua e non si degradano nell’ambiente a causa della loro stabilità chimica, andando a contaminare acqua potabile, alimenti e i mangimi, dovunque vengano utilizzati”, ha spiegato la ricercatrice dello stesso laboratorio ENEA, Chiara Telloli. “Anche se smettessimo subito di produrli, rimarrebbero in circolazione per generazioni, considerando che nessun’altra sostanza chimica artificiale permane nell’ambiente tanto a lungo quanto i PFAS, con un impatto importante sugli acquiferi superficiali e profondi”. 

Come difendersi dagli PFAS?

Il team sta sperimentando un’applicazione basata sull’utilizzo di un fascio di elettroni di energia controllata che sembra riuscire a degradare i PFAS nelle acque, trasformandoli in sostanze più semplici da trattare. Il funzionamento è stato illustrato da Antonietta Rizzo, responsabile del Laboratorio “Metodi e Tecniche nucleari per la sicurezza, il monitoraggio e la tracciabilità”. “In pratica, il fascio di elettroni spezza il legame carbonio-fluoro dei PFAS, che è uno tra i più forti nella chimica organica”, chiarisce la scienziata. Il risultato è la formazione di fluoruri, che sono comunque inquinanti ma decisamente più facili da trattare e da abbattere. Tecnologie analoghe sono già in uso, in varie parti del mondo, per il trattamento di acque reflue con svariati tipi di inquinanti e permettono di abbattere sensibilmente i costi di gestione degli impianti. Nel caso dei PFAS, questa tecnica potrebbe essere l’unica realmente efficace per ottenere risultati soddisfacenti”.

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Questo metodo risulta particolarmente vantaggioso perché può essere applicato a grandi volumi di limiti in un tempo continuo. I residui chimici del processo si possono eliminare facilmente con tecnologie già ampiamente diffuse come la precipitazione o la coagulazione. E l’acqua “trasformata” non crea problemi di smaltimento di residui. “Queste specie chimiche prodotte a partire dal fascio degli elettroni sono molto ‘aggressive’ ma di breve vita, dell’ordine di pochi millisecondi, e non introducono alcuna possibilità di contaminazione poiché, alla fine del processo, non possono sopravvivere nell’impianto”, ha aggiunto Rizzo. “Questo significa che nessuna radiazione residua rimane nell’acqua irraggiata dopo il trattamento. L’unica vera limitazione pratica è la penetrazione limitata degli elettroni in acqua che è di pochi centimetri. Ma su questo aspetto è in corso uno studio per valutare l’efficienza di penetrazione e lo spessore di acqua trattabile”.

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