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I colori del deserto, dal Sahara all’osservatorio atmosferico di Monte Curcio

Contenuto realizzato nell’ambito del progetto CNR 4 Elements

Figura 1: L’Osservatorio atmosferico di Monte Curcio e la sua posizione rispetto al territorio nazionale e al bacino del Mediterraneo

di Mariantonia Bencardino, Antonella Tassone e Valentino Mannarino

La lontananza dai centri urbani e l’assenza di influenza antropica diretta locale fanno di una stazione rurale di fondo un sito particolarmente interessante dal punto di vista scientifico per l’approfondimento delle conoscenze sulle concentrazioni di “fondo” che si registrano in atmosfera. Se poi il sito è collocato in quota e ha un orizzonte completamente libero, le caratteristiche della stazione di monitoraggio e dell’area in cui è ubicata sono ancora più interessanti e le conferiscono la capacità di intercettare masse d’aria trasportate a medio-lungo raggio.

È questo il caso dell’osservatorio atmosferico di Monte Curcio (MCU), un sito rurale di fondo, gestito dall’Istituto sull’Inquinamento Atmosferico del CNR (CNR-IIA) e attivo dal 2015, che si trova all’interno del Parco Nazionale della Sila, nell’Appennino meridionale, con posizione centrale rispetto al bacino del Mediterraneo. 

È evidente che la scelta di un sito così caratterizzato è stata motivata dalla possibilità di disporre di una vera e propria sentinella dell’atmosfera e del clima che, grazie alla propria posizione dominante sul resto del territorio, pressoché indisturbata da interferenze di sorgenti antropiche, fosse così capace di percepirne anche le più piccole alterazioni legate a condizioni climatico-ambientali. 

In linea con tale finalità, la stazione MCU rappresenta una delle oltre cento stazioni regionali attive distribuite su scala globale della rete di monitoraggio del Global Atmosphere Watch (GAW). Si tratta di un Programma dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO) che ha come obiettivo la valutazione dello “stato di salute” dell’atmosfera, attraverso l’acquisizione sul lungo periodo di dati osservativi sulla composizione chimica e sulle caratteristiche fisiche dell’atmosfera. L’acquisizione dei dati provenienti dalle diverse stazioni afferenti a questa, come ad altre reti di monitoraggio, richiede necessariamente l’adesione a tutta una serie di procedure operative standard, cui i ricercatori e i tecnici della stazione di MCU si attengono, per garantire la qualità e la comparabilità dei dati rilevati. La lettura congiunta che ne deriva, se da una parte aggiunge ulteriori elementi alla migliore comprensione dei fenomeni comuni a scala globale, dall’altra evidenzia specifiche sfaccettature legate alla peculiarità della regione di osservazione. In tale contesto, presso la stazione MCU, oltre alle variabili meteorologiche, vengono monitorati i principali gas serra a lungo termine, quali il biossido di carbonio (CO2), il metano (CH4) e il vapore acqueo (H2O), che vanno ad aggiungersi agli inquinanti climalteranti a breve termine, quali l’ozono (O3) ed il Black Carbon equivalente (eBC), e ad altri gas in tracce, quali gli ossidi di azoto (NOx), il biossido di zolfo (SO2), il monossido di carbonio (CO) e il mercurio gassoso totale (TGM). Oltre ai gas sopra menzionati, una linea di monitoraggio viene dedicata al campionamento, con metodo gravimetrico, del materiale particolato nelle due frazioni granulometriche PM10 e PM2.5. Si tratta delle cosiddette “polveri sottili”, inquinanti atmosferici dalla natura complessa, per composizione, distribuzione dimensionale e molteplicità di sorgenti da cui hanno origine, nonché per la particolare criticità che destano in termini di rispetto dei valori limite stabiliti per la protezione della salute umana. Come evidenziano, ad esempio, i dati rilevati nel 2020 dal Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA), oltre un terzo delle stazioni della rete di qualità dell’aria in Italia, non ha rispettato il limite di legge nazionale ed europeo per il PM10, stabilito come valore soglia di 50 µg/m3 da non superare più di 35 volte in un anno solare. 

In una stazione di alta quota come quella di MCU, per definizione posta ben lontano da sorgenti antropiche, ci si potrebbe aspettare di non rincontrare tale problema. Esaminando i dati del 2021, per il quale si dispongono di misurazioni del particolato per 244 giorni, sono state riscontrate concentrazioni al di sopra del valore limite giornaliero per ben 33 volte! Come spiegarsi questi valori così elevati? Un’attenta osservazione dei filtri campionati, anche se in questa fase solo di tipo qualitativa, ha fornito supporto ad una prima plausibile spiegazione. 

Mentre i filtri campionati in corrispondenza di livelli di concentrazione bassi si sono presentati con colorazione per lo più grigio-chiaro, la maggior parte dei filtri corrispondenti ai superamenti registrati hanno mostrato prevalentemente sfumature di colore arancione. L’impiego di opportuni modelli, accoppiati all’analisi delle retro-traiettorie delle masse d’aria intercettate, unitamente a mappe satellitari, hanno poi supportato con maggiore confidenza l’ipotesi che la maggior parte del particolato campionato nei giorni di superamento provenisse dal deserto del Sahara. 

Dalla distribuzione dei superamenti, si è potuto inoltre notare come alcuni siano stati registrati nei mesi primaverili ed autunnali mentre la maggior parte sia stata rilevata tra la fine di giugno ed i primi di agosto. Confrontando questi mesi del 2021 con gli stessi degli anni precedenti, in particolare 2016 e 2017, si è notato come nell’ultimo anno gli episodi di intrusione di dust sahariano siano stati non solo più frequenti ma anche più intensi. Tale evidenza è probabilmente da attribuirsi alla concomitanza di prolungate condizioni di ondate di calore che hanno caratterizzato l’estate 2021 e che, secondo quanto riportato nell’ultimo rapporto dell’IPCC (AR6), rappresenta una delle quattro categorie chiave di rischio climatico individuate per l’area del Mediterraneo.

Figura 2: Con riferimento all’osservatorio atmosferico MCU sono riportati: a) l’andamento temporale delle concentrazioni giornaliere di PM10 rilevate nel corso del 2021 (in arancione sono evidenziati i giorni in cui sono stati registrati superamenti rispetto al valore soglia di 50 µg/m3); b) la sequenza di filtri campionati nell’estate 2021; c) la stima della concentrazione in superficie delle polveri desertiche ottenuta, a titolo di esempio per il 24 giugno 2021, dal modello BSC-Dream.

L’intrusione di polveri desertiche di origine sahariana (saharan dust) è un fenomeno che si manifesta in concomitanza di particolari condizioni della pressione atmosferica a scala sinottica, che vedono solitamente la presenza di un anticiclone subtropicale africano, la cui espansione verso nord richiama le correnti sciroccali. Sono quest’ultime le responsabili del trasporto di polveri che partendo dal più grande deserto caldo al mondo, il Sahara, riescono a percorrere centinaia di chilometri, raggiungendo i paesi del Mediterraneo e riuscendo spesso ad andare anche oltre. 

Sebbene la normativa vigente consenta di scorporare, nel computo dei superamenti del PM10, il contributo al particolato imputabile al dust sahariano, poiché ritenuto di origine naturale, ciò non significa che ad esso non siano associati impatti negativi, sia sull’ambiente che sulla salute. La loro deposizione sulla superficie delle foglie delle piante, ad esempio, ne inibisce la fotosintesi mentre sui pannelli solari ne determina la riduzione del rendimento. L’esposizione alle polveri di origine desertica è stata inoltre associata a problemi di irritazione della pelle e degli occhi, a disturbi cardiaci e respiratori, oltre che ad una varietà di malattie infettive e non-infettive. 

Figura 3: Valori di concentrazione giornaliera di PM10 [µg m-3] misurati a MCU – nei mesi da aprile a settembre e per gli anni 2016, 2017 e 2021 – riportati nei corrispondenti giorni di campionamento. Nel calendario la gradazione di colore più intensa fa riferimento a concentrazioni più elevate, in giallo sono evidenziate le concentrazioni superiori al valore soglia di 50 µg/m3.

Anche in virtù di questi aspetti, le nuove Linee Guida dell’OMS, pubblicate nel 2021, oltre a ridurre notevolmente gli standard di qualità dell’aria per i principali inquinanti atmosferici, rispetto a quanto indicato nella precedente versione del 2005, hanno introdotto delle buone pratiche che, tra altri aspetti, riguardano proprio le sabbie e le polveri desertiche. Vista lo loro ancor limitata conoscenza viene infatti suggerito lo svolgimento sia di appositi studi epidemiologici in grado di valutarne gli effetti a lungo termine, sia di un’opportuna caratterizzazione chimica da inserire all’interno dei più diffusi programmi di monitoraggio della qualità dell’aria. Quest’ultima è già in programmazione tra le attività di monitoraggio presso la stazione MCU e consentirà, attraverso l’impiego di opportuni modelli a recettore, di verificare su tutto il periodo di osservazione l’effettivo contributo del saharan dust alle concentrazioni totali di PM10. D’altra parte, secondo la WMO, anche se l’intrusione di polveri desertiche è legata a processi di origine naturale, una buona parte è da attribuire alla sempre maggiore scarsità di acqua e all’aumento della desertificazione del suolo, entrambe conseguenza della cattiva gestione di queste risorse naturali nonché del riscaldamento globale, che nell’ultimo secolo, secondo un recente studio pubblicato su Journal of Climate, avrebbero comportato un aumento del 10% della superficie del Sahara. 

Da quanto esaminato non può che dedursi la stretta interconnessione tra inquinamento atmosferico e cambiamento climatico che, in modo figurato, non sono altro che due facce della stessa medaglia. È pertanto quantomai necessario ed urgente adottare un approccio integrato rispetto a questi due ambiti della conoscenza e della ricerca scientifica, in modo da supportare efficaci azioni di mitigazione e di adattamento con cui si dovranno affrontare congiuntamente le importanti sfide della tutela dell’ambiente e della salute dell’uomo.

di Mariantonia Bencardino, Antonella Tassone e Valentino Mannarino, CNR-IIA

Hanno collaborato all’articolo: Francesco D’Amore, Maria Martino, Domenico Amico (CNR-IIA)

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