Le ONG denunciano tre società italiane per vendere navi a fine vita a cantieri di demolizione che violano i diritti umani e le leggi sull'inquinamento
(Rinnovabili.it) – Tre grandi gruppi italiani continuano a riciclare navi in luoghi del mondo dove si sfrutta il lavoro minorile e si provoca l’inquinamento delle spiagge. Lo afferma la NGO Shipbreaking Platform, una coalizione globale di 19 associazioni in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e del lavoro, che opera per porre fine allo smaltimento inquinante e pericoloso delle imbarcazioni a fine vita. Il gruppo denuncia le compagnie di navigazione italiane Grimaldi Group, Ignazio Messina e Vittorio Bogazzi & Figli per il basso livello di sostenibilità nelle operazioni di smantellamento, e le invita ad adottare le misure necessarie per garantire il riciclo sostenibile della loro flotta con urgenza. Le ONG hanno inviato lettere ai proprietari delle navi italiane e all’Associazione degli armatori italiani, invitandoli ad avviare un dialogo costruttivo.
Molte grandi compagnie di navigazione seguono politiche responsabili nello smaltimento dei loro mezzi. Oltre a numerosi armatori norvegesi come Grieg, Wilhelmsen e Høegh, anche la tedesca Hapag-Lloyd, la danese Maersk Lines, la canadese CSL Group e la Navigation Company (Singapore-Cina), si sono impegnate a garantire la buona gestione delle rispettive flotte una volta che i natanti sono giunti a fine vita. Lo fanno anche se questo comporta una erosione dei loro profitti, scrive la NGO Shipbreaking Platform. Ma questo sforzo permette di evitare l’inquinamento di zone costiere sensibili e la messa a rischio dei lavoratori durante lo smaltimento di navi “pericolose” sul litorale.
Le tre società italiane, invece, continuerebbero a vendere le proprie imbarcazioni a fine vita a cantieri navali noti a livello globale per non rispettare i diritti umani e le norme di tutela ambientale. Secondo i dati raccolti dalla piattaforma di 19 organizzazioni, dal 2009 ad oggi, Grimaldi Group, Ignazio Messina e Vittorio Bogazzi & Figli avrebbero venduto 54 navi a fine vita a cantieri nel Sud dell’Asia (rispettivamente 10, 14 e 30) che operano sotto gli standard minimi.
Nella lettera inviata ai proprietari italiani, la Piattaforma richiama le aziende – che hanno sede in Ue – ai loro obblighi previsti da leggi europee in materia di rifiuti, così come al rispetto degli standard di sicurezza e di sostenibilità stabiliti dal nuovo regolamento europeo sul riciclaggio delle navi. Esso impone che i natanti vengano riciclati solo presso le strutture autorizzate dall’Unione, mettendo fine alla pratica del beaching, cioè dell’abbandono sulle spiagge dei Paesi poveri. Ma nessuno dei cantieri dell’Asia meridionale, al momento, ne soddisfa i requisiti.
In India, Bangladesh e Pakistan, le navi a fine vita sono smantellate nella zona intertidale, ossia quel tratto di litorale che emerge in condizioni di bassa marea e viene sommerso quando sopraggiunge l’alta marea. Questa pratica non è consentita nell’Unione europea ed è stata vietata in altri Paesi come Cina, Taiwan e Turchia. L’alaggio delle imbarcazioni (ossia l’operazione con cui le si trae in secca) non consente una sicura rimozione dei rifiuti pericolosi (amianto e metalli pesanti) dalla struttura e non può impedire l’inquinamento dell’ambiente costiero. Inoltre, non garantisce la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. In particolare, i cantieri navali del Bangladesh impiegano bambini e ragazzi, pratica illegale secondo il diritto internazionale. L’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) considera la demolizione delle navi come uno dei lavori più pericolosi al mondo.