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Il Protocollo di Kyoto, parte seconda

Questo non è l’ultimo compleanno del Protocollo di Kyoto. O almeno non dovrebbe esserlo se i paesi che ne fanno parte metteranno in pratica quanto promesso durante l’ultima Conferenza delle parti (Cop 17) che si è svolta a Durban, in Sudafrica, a fine 2011.

Nonostante la maggior parte dei mezzi d’informazione abbia dato maggior risalto agli insuccessi del passato e all’incertezza del presente, i delegati si sono espressi in modo chiaro: Kyoto avrà un secondo periodo di impegni vincolanti che i paesi industrializzati saranno tenuti a rispettare.

Non tutti gli stati che finora avevano sottoscritto e ratificato i target di riduzione della CO2 da raggiungere nel periodo 2008-2012 si sono detti disposti a partecipare alla seconda tranche. Questa è la vera notizia. Il fronte si è spaccato tra chi ha compreso l’importanza di evitare un vuoto giuridico e chi invece si è impuntato sulla necessità di coinvolgere anche i paesi emergenti che oggi causano gran parte delle emissioni globali.

I documenti approvati alla Cop 17, dopo una lunga maratona, affermano che i paesi industrializzati “mirano ad assicurare una riduzione delle emissioni aggregate di gas ad effetto serra tra il 25 e il 40 per cento entro il 2020 rispetto ai livelli registrati nel 1990”. Per farlo, devono inviare volontariamente entro il 1° maggio 2012 una stima delle loro emissioni attuali e un possibile impegno. Sarà poi la Conferenza che si terrà alla fine di quest’anno in Qatar a decidere effettivamente gli obiettivi di riduzione (complessivo e per paese) che dovrebbero entrare in vigore il 1° gennaio 2013 e decadere il 31 dicembre 2017, anche se molti rappresentanti hanno chiesto che la “data di scadenza” venga spostata al 2020.

 

Parallelamente, infatti, la Conferenza di Durban ha stabilito anche le tappe da rispettare per l’entrata in vigore di un trattato legalmente vincolante per tutti i paesi della comunità internazionale, compresi Cina e Stati Uniti. La sua stesura dovrà essere pronta per il 2015 in modo tale che i paesi abbiano il tempo di firmarlo e ratificarlo proprio entro il 2020. Da qui la richiesta dell’Unione europea, sostenuta anche dal Brasile, di uniformare l’anno dell’uscita di scena del Protocollo di Kyoto con quella di ingresso del nuovo accordo.

Ad avere accettato questo schema ci sono, in primis, i paesi del Vecchio continente. Il commissario europeo per il Clima Connie Hedegaard ha più volte affermato che un secondo periodo di Kyoto va considerato come un momento fondamentale nella road map verso l’adozione di testo che coinvolga tutte le parti che hanno aderito alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc). Sulla stessa lunghezza d’onda si sono posizionate Australia, Svizzera e Norvegia. Sull’altro fronte, invece, Canada, Russia e Giappone che hanno bollato il Protocollo come “inutile” senza l’impegno immediato e diretto di quei paesi che ad oggi sono responsabili di una fetta significativa delle emissioni: Cina, India, Brasile. Senza dimenticare gli Stati Uniti che non lo hanno mai ratificato. Il giorno dopo la fine dei lavori a Durban, il Canada ha subito avviato la procedura per uscire dal Protocollo, lasciando di stucco persino gli addetti ai lavori. Il ministro dell’Ambiente canadese, Peter Kent, ha invocato il diritto legale del proprio paese a ritirarsi dal trattato dichiarando che Kyoto non rappresenta la soluzione giusta per combattere i cambiamenti climatici.

Questa dunque la realtà dei fatti a quindici anni di distanza dalla Cop 3, quella che portò una modesta città giapponese a diventare famosa in tutto il mondo. Citata e urlata, cliccata e digitata, elogiata e criticata, Kyoto è entrata di prepotenza in ogni aula, sala conferenze o redazione interessata alla questione climatica. Buon compleanno Kyoto. Cento di questi giorni.

 

di Tommaso Perrone

 

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