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Il lato segreto dell’inquinamento marino

Pitture antivegetative, una fonte di inquinamento ancora poco conosciuta per la quale è necessario promuovere strategie di ricerca in grado di sviluppare nuove tecnologie ecocompatibili

Il biofouling. Non è facile trovare questa parola in un vocabolario infatti “biofouling”, che deriva dall’unione di bio = vita e fouling = immondizia, è un termine tecnico utilizzato in tutto il mondo per indicare un complesso fenomeno marino: l’incrostazione biologica.

Ogni oggetto immerso in mare di qualsiasi materiale e dimensione viene, dopo un periodo di tempo più o meno lungo, inesorabilmente ricoperto da una serie eterogenea di organismi che scelgono, come sede definitiva della loro esistenza, quella invitante superficie ancora disabitata.

Lo studio del biofouling come evento biologico è estremamente affascinante, anche se in una visione strettamente antropocentrica, questa incrostazione pulsante di vita è considerata per lo più come un danno, in quanto è in grado di creare seri problemi di biodeterioramento a tutte le strutture in contatto con l’acqua di mare, con costi di manutenzione stimati nell’ordine di miliardi di euro all’anno.

A tutti gli uomini di mare è ben noto il problema del biofouling sulle carene delle imbarcazioni e degli sforzi necessari per risolverlo. Il fouling sulle carene delle imbarcazioni aumenta l’attrito con l’acqua rendendo più lenta la navigazione e riducendo la manovrabilità, il che comporta maggior consumo di carburante che, nel lungo periodo, raggiunge costi economici che non possono essere assolutamente sottovalutati.

Un biofilm batterico (la prima fase della colonizzazione biologica) dello spessore di alcune centinaia di micron sulle imbarcazioni causa un aumento della resistenza alla frizione del 10%.

Inoltre, le carene e le strutture navali possono subire nel tempo un vero e proprio danneggiamento per effetto della corrosione microbiologicamente influenzata (MIC) con la quale i batteri modificano la cinetica dei processi corrosivi aumentandone la velocità.

 

Le pitture antifouling

I sistemi di difesa dal biofouling nel settore nautico sono essenzialmente rappresentati dai rivestimenti protettivi applicati alla opere vive delle imbarcazioni (le parti sommerse delle carene): le pitture antivegetative o antifouling.

Esistono vari tipi di pitture che possono essere classificate in base al meccanismo di rilascio dei principi attivi (biocidi) in esse contenuti: a matrice solubile, a matrice insolubile e autoleviganti o autopulenti.

Il termine “biocida” non lascia dubbi, deriva greco bios = vita e il latino caedere = uccidere; quindi sono letteralmente sostanze altamente tossiche che “uccidono la vita”.

Per il momento il mercato delle antivegetative è ancora improntato quasi esclusivamente su pitture contenenti sostanze tossiche nella loro matrice. La molecola tossica viene inglobata tra gli “ingredienti” della pittura (leganti, pigmenti, addensanti, solventi) e, a contatto con l’acqua di mare, per fenomeni chimico-fisici, si libera in acqua. La durata della sua efficacia dipende dalla costante presenza, nello strato laminare di confine tra solido e liquido, di una concentrazione adeguata ad impedire l’insediamento degli organismi.

Se ci soffermiamo a pensare che la superficie immersa delle carene di tutte le flotte mondiali è protetta con pitture antivegetative potenzialmente tossiche possiamo immediatamente intuire la portata di questa subdola e poco conosciuta fonte di inquinamento.

Un esempio eclatante di un biocida antifouling, che in passato ha dimostrato la sua pericolosità, è il tributil-stagno (TBT), definito come una delle sostanze più tossiche deliberatamente introdotte dall’uomo nell’ambiente, che recentemente è stato finalmente bandito da un regolamento dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) che ha sancito, a partire dal 2008, la sua graduale e definitiva scomparsa dalle pitture di tutte le imbarcazioni.

Le problematiche legate al biofouling sono tutt’altro che risolte e non dobbiamo dimenticare che un’imbarcazione non protetta con un adeguato sistema antifouling può consumare il 40% in più di carburante, ed emettere il 40% in più di gas di scarico causando un imponente inquinamento atmosferico.

Uno dei primi effetti del bando del TBT è stato, in questi ultimi anni, un notevole incremento delle pitture antivegetative contenenti rame e altri numerosi biocidi secondari, sia organici che organometallici, per i quali, peraltro, non esistono ancora sufficienti dati del loro impatto ambientale.

La tossicità del TBT è stata sottostimata per decenni prima di prendere dei seri provvedimenti e la stessa situazione potrebbe ripresentarsi con i biocidi alternativi che potrebbero rivelarsi più tossici di quanto si ritenga a causa della carenza di adeguati studi ecotossicologici.

E’ chiaro dunque che per tutti i nuovi composti è richiesta, da parte della comunità scientifica e industriale, una maggiore attenzione verso la sperimentazione ecotossicologica, necessaria per poter effettuare una stima del rischio a cui potrebbe andare incontro l’ecosistema marino. L’utilizzo in Europa è attualmente gestito da una strategia normativa (Direttiva 98/8/CE) specifica per tutti i pesticidi definiti “non agricoli” ai quali i biocidi appartengono.

 

Pitture antifouling ecocompatibili

Negli ultimi anni sono state potenziate le ricerche finalizzate allo sviluppo di pitture antivegetative a minore impatto ambientale che dovrebbero produrre, nel breve periodo, ad una graduale diminuzione del rame, come biocida primario, associandolo a biocidi secondari ecocompatibili, tra i quali dovrebbero emergere anche quelli di origine naturale che recentemente, pur avendo avuto una particolare attenzione dal mondo della ricerca applicativa, stentano ancora ad essere realmente presenti sul mercato.

Ma le alternative realmente ecocompatibili, per quanto riguarda il medio e lungo periodo, sembrano essere le tecnologie basate su un “azione fisica” in grado di impedire, senza alcuna presenza e rilascio di sostanze tossiche, l’insediamento degli organismi del biofouling.

Tra queste particolare interesse hanno le pitture antifouling denominate “Foul-Release”, realizzate con prodotti siliconici, rivestimenti fluoropolimerici e a base di silossani, che basano la loro efficacia essenzialmente sulla bassa energia superficiale.

La produzione di molti di questi nuovi materiali per uso nautico, che sfrutta anche le potenzialità delle nuove nanotecnologie per aumentarne l’efficacia, si sta diffondendo in molte delle aziende del settore che, in questi ultimi anni, promuovono la ricerca applicata per il settore delle pitture antivegetative.

In Italia esiste un’istituzione che da anni si occupa di queste problematiche, l’unità operativa genovese dell’Istituto di Scienze Marine (ISMAR) del Consiglio Nazionale delle Ricerche con sede centrale a Venezia. L’attività dell’unità operativa di tecnologie antifouling dell’ISMAR ha prodotto brevetti industriali e certificazioni, ed è stata chiamata a prestare consulenza scientifica e a svolgere ricerca applicata per enti e privati avvalendosi, tra l’altro, del supporto logistico di una stazione marina sperimentale ubicata nell’avamporto genovese.

Nel corso degli anni è diventata un punto di riferimento per approfondire da diverse angolature le tematiche legate alla corrosione marina e al biofouling partecipando attivamente a diversi progetti in sinergia con aziende nazionali e internazionali dedicati allo sviluppo di tecnologie antifouling ecocompatibili.

 

di Marco Faimali – CNR-ISMAR